Il 18 aprile del 1948 (70 anni e un giorno fa) l’Italia permise alla civiltà occidentale di non essere travolta dall’ideologia totalitaria comunista. Oggi, in pericolo non c’è solo una cultura ma l’uomo in quanto tale, che la tecnica vuole abolire per sempre. Ecco come siamo arrivati, passo dopo passo, a questa follia.

Sono passati settant’anni da quel 18 aprile del 1948, quando gli italiani furono chiamati per la prima volta al voto dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. La Guerra Fredda era già cominciata da tempo e gli elettori furono subito chiamati a una scelta di campo tra il Fronte Democratico Popolare (egemonizzato dal Partito Comunista di Palmiro Togliatti e dal Partito Socialista di Pietro Nenni) e la Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi.

La vittoria – anzi il trionfo – andò alla DC, che si aggiudicò il 48,51% dei voti (contro il 30,98 delle sinistre) grazie all’appoggio della Chiesa e alla mobilitazione popolare dei Comitati Civici di Luigi Gedda. L’estrema pericolosità di una ideologia disumana come quella socialcomunista – come avrebbero sperimentato sulla loro pelle i paesi finiti sotto l’influenza sovietica – fu percepita con grande chiarezza dalla società italiana di allora. E così gli italiani, dopo gli strazi della guerra e la disonorevole caduta del regime fascista, senza dimenticare la fine altrettanto ingloriosa della monarchia, scelsero i valori occidentali e quelli cristiani.

Oggi, a settant’anni di distanza da quel fatidico 18 aprile, i tempi sono cambiati. È cambiato l’ideale antropologico, il tipo umano dominante in una determinata epoca storica. E, di conseguenza, la sfida da fronteggiare.

Dopo l’homo sapiens e l’homo religiosus, finisce anche l’homo faber

L’Antichità classica, ad esempio, vide imporsi l’homo sapiens: l’uomo inserito in un ordine cosmico, ciclico, caratterizzato dall’eterno ritorno dell’identico, che si affranca dal mito per cominciare a fare uso del logos, cioè della ragione. Con la rivelazione giudaico-cristiana nasce un nuovo tipo umano: l’homo religiosus, l’uomo della fede orientato dalla Provvidenza e in cammino verso la meta escatologica. Il mythos e il logos avrebbero trovato una sintesi armoniosa tra fede e ragione nella cosiddetta alleanza socratico-mosaica.

Ma il raggiunto equilibrio sarebbe stato spezzato dall’ascesa del terzo uomo: l’homo faber, l’uomo fattore della realtà, un tipico prodotto della borghesia rampante, calcolatrice e utilitaristica della modernità. È l’epoca del Prometeo scatenato, in cui il Progresso e la Scienza vengono elevati a idoli onnipotenti, reputati in grado di fabbricare un «uomo nuovo» attraverso ideologie politiche dalle pretese rivoluzionarie. Era l’utopia di un homo novus da generare attraverso la creazione di condizioni sociali nuove, inedite nella storia dell’umanità perché totalmente riscritte in base ai dettami «scientifici» delle ideologie. L’esperienza storica – prima fra tutte quella degli «stati assassini» del XX secolo – si sarebbe incaricata di smentire con brutalità i sogni e miti di progresso partoriti dalla raison prometeica. Col risultato che oggi le grandi narrazioni ideologiche segnano il passo.

Oggi nessuno – o quasi – vagheggia più palingenesi sociali. Come ha mostrato Augusto Del Noce, l’utopia della società comunista è tramontata. Dell’antico spirito rivoluzionario è rimasto solo il materialismo, l’idea che la realtà intera sia semplice materia trasformabile, senza alcun ordine da rispettare.

È rimasto così il frutto avvelenato di un relativismo morale assoluto – la dittatura del relativismo denunciata da Benedetto XVI – che decreta la morte dei vecchi princìpi morali ma insieme confessa che nuovi ideali non possono nascere.

Finito ogni ideale, rimangono solo due idoli: il sesso e la tecnica

La desertificazione del paesaggio morale ha risparmiato soltanto ciò che per propria natura non può fondare direttamente valori – anche se può assumere valore elevandosi a idolo. Non a caso sono i due idoli della società postmoderna.

In primo luogo la «vitalità», cioè il sesso come attività ri-creativa e non come attività pro-creativa. Il sesso come narcosi. Massimo Borghesi arriva a parafrasare la celebre frase di Marx: oggi possiamo affermare che il sesso è l’oppio dei popoli. L’eros onnipresente – in televisione, sui giornali, su internet – narcotizza e inebria, fornendo quella rassicurante sensazione di vitalità che permette di sopportare una esistenza ormai decaduta di senso dopo il tracollo di ogni ideale.

Si impone quale nuovo modello antropologico l’homo ludens: l’uomo de-strutturato e liquescente, quell’essere isolato e solipsistico, dagli infiniti desideri da appagare istantaneamente. Una tale attitudine finisce per negare la personalità degli altri, riducendoli a cose. Gli altri soggetti cessano di essere fini in se stessi per trasformarsi in puri strumenti o ostacoli, tanto che nemmeno più ha senso parlare di doveri morali nei loro confronti.

In secondo luogo la «tecnoscienza», la quale di per sé non può fondare valori, non essendo in grado di gerarchizzare i fini. La scienza non può attestare quali valori siano superiori ad altri. Può soltanto perfezionare i mezzi per raggiungerli. Pertanto essa è strumento di cui si può fare buono o cattivo uso.

Con la ragione strumentale al servizio della vitalità ogni valore viene retrocesso, come aveva previsto Del Noce, a strumento per potenziare il proprio tono vitale. Ciò che è tecnicamente fattibile deve essere consentito. Il desiderio diventa diritto.

Accade qualcosa di inedito. Nella società tecnologica l’uomo stesso finisce per entrare in competizione con le macchine, misurandosi coi prodotti stessi del suo ingegno sempre più perfezionati e progrediti.

L’antico orgoglio prometeico decade lasciando spazio a una patologia dell’anima radicalmente peggiore. Corrisponde a quella che Günther Anders ha chiamato «vergogna prometeica»: il sentimento di inadeguatezza sperimentato dall’uomo di fronte alla perfezione tecnica dei suoi prodotti. Un sentimento perturbante che lo spinge a sua volta a trasformarsi in cosa, vergognandosi di essere «nato» anziché essere stato «fabbricato». L’homo faber si vergogna di non essere homo fabricatus e cerca di così di «migliorarsi» attraverso lo Human Engineering.

La maligna solidarietà tra homo ludens e homo fabricatus non soltanto riduce l’altro a cosa. Nella temperie postmoderna l’uomo finisce per ridurre anche se stesso a cosa. E l’uomo che si autoriduce a cosa cerca di emendarsi dal suo peccato originale nei confronti della macchina: la propria condizione di essere nato, non fabbricato. Con l’avvento della nuova gnosi tecnoscientifica l’uomo si scopre antiquato, obsoleto, superfluo. Si vergogna di essere nato (natum esse) biasimandosi per avere una origine naturale anziché una causa artificiale.

I tempi sono decisamente cambiati. Non si cerca più una radicale trasformazione dell’umanità attraverso una ideologia politica, quanto per mezzo di una «antropotecnica» che, forte dei progressi biotecnologici, farmacologici e biomedici, propizia l’avvento di una umanità OGM, invincibile e gaudente. È l’orizzonte delle nuove ideologie del trans e del postumanesimo (delle quali, a ben vedere, le teorie del gender sono soltanto un sottoprodotto) che mirano a ibridare uomini e macchine fondendoli in un unico organismo cibernetico.

Ciò che non è all’altezza di una simile opera di fusione non merita altro che di essere «smaltito» come un arnese inservibile. Lo ha ben capito papa Francesco. È il cuore di tenebra della postmodernità: lo «scarto» di esseri umani giudicati poco «perfomativi». Charlie Gard, Isaiah Haastrup, Alfie Evans, Vincent Lambert sono le ultime vittime di questa cultura.

Nel 2001 Giovanni Paolo II lanciò un grido appassionato: «In questo inizio del millennio, salviamo l’uomo!». L’uomo, si badi bene, non il cristiano. Aveva capito, lui santo, lui profeta, che presto si sarebbe approssimato un nuovo 18 aprile: il momento in cui i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà avrebbero dovuto lottare per salvare non tanto una civiltà, quanto l’uomo stesso.

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