Dal Congo alla Nigeria, dal Ciad al Malawi, la Chiesa Africana sfida il potere con continue azioni in difesa della dignità umana, con una fede giovane e viva che ricorda le origini del Cristianesimo. Un coraggio che dovrebbe far riflettere parecchio noialtri cattolici del Vecchio Continente sempre pronti a dar ragione a chi comanda nel nome del ‘progresso’…
Nella Repubblica Democratica del Congo il 1° maggio il Comitato laico di coordinamento, l’organismo della Chiesa cattolica promotore delle iniziative organizzate nei mesi scorsi per chiedere al presidente Joseph Kabila di rispettare la costituzione e rinunciare a ricandidarsi alle prossime elezioni, ha annunciato la ripresa delle proteste. Il 10 marzo il Comitato aveva deciso di sospendere le manifestazioni in cambio della garanzia che il paese andrà al voto entro il 2018 per eleggere finalmente il capo dello stato il cui secondo e ultimo mandato è scaduto nel dicembre del 2016. Da allora Kabila ha indetto e poi rimandato più volte le elezioni con degli espedienti, deciso a non lasciare la carica, e la Chiesa non ha mai smesso di denunciare il suo comportamento. Lo scorso dicembre, quando si è saputo che il voto previsto entro fine 2017 sarebbe stato di nuovo rinviato, le parrocchie della capitale Kinshasa per protesta hanno deciso di suonare le campane ogni giovedì sera alle 21.00 per 15 minuti e hanno hanno chiesto alla popolazione di unirsi alle campane facendo rumore con qualsiasi mezzo: clacson, fischietti, vuvuzela, casseruole. Inoltre il Comitato ha organizzato tre marce pacifiche in tutte le province del paese alle quali il governo ha risposto con una dura repressione che ha causato almeno 17 morti. Invece di dare le garanzie richieste, governo e commissione elettorale parlano adesso di rimandare ancora le elezioni accampando dei pretesti. Per questo il Comitato ha deciso nuove iniziative di protesta: “chiediamo al popolo congolese di mobilitarsi unito – si legge nel suo appello ai congolesi – in tutte le province, città, villaggi, quartieri, viali e strade, disposto ad affrontare il peggio per ottenere il meglio”.
Come nella Repubblica Democratica del Congo, anche negli altri paesi africani la Chiesa cattolica prende la parola per denunciare ingiustizie, violazioni dei diritti umani, corruzione, democrazia tradita, non di rado unica a osare tanto sfidando leader notoriamente disposti a usare la forza per reprimere il dissenso.
Con una lettera pastorale pubblicata il 29 aprile i vescovi del Malawi hanno invocato “un totale cambiamento di mentalità” e auspicato dei leader che si facciano “agenti del cambiamento” per il bene del paese, ancora povero, sottosviluppato, infestato dalla corruzione a 54 anni dall’indipendenza. “Osserviamo con profonda tristezza – si legge nel documento – che la maggior parte della popolazione del Paese ancora langue sotto il giogo di povertà, ignoranza, malattie, fame e una mentalità gravemente distorta che ha portato a una pericolosa decadenza morale nella nostra società”. A 25 anni dalla reintroduzione del multipartitismo, “viviamo in una vera democrazia – si domandano – o in un sistema che permette a poche persone di esercitare il potere e di godere delle ricchezze del Paese a spese della stragrande maggioranza?”. Uno dei nodi da affrontare – dicono – è la democrazia nei partiti, di maggioranza e di opposizione, “dove prevale l’interesse del leader di riferimento e dei suoi associati, a spese di quello degli iscritti e dei votanti”.
In Nigeria invece la Conferenza episcopale di recente, commentando l’insicurezza che regna nel paese – al nord est a causa del movimento islamista Boko Haram, negli stati centrali per gli scontri etnici tra pastori di fede musulmana e agricoltori cristiani – si è rivolta al presidente Muhammadu Buhari chiedendogli di dimettersi se non è in grado di difendere la nazione: “è giunto il momento – hanno scritto in un comunicato – che il Presidente scelga di farsi da parte con onore per salvare la nazione dal collasso completo”. I Vescovi – spiega l’agenzia Fides a cui il comunicato è stato recapitato – accusano della situazione il governo federale e le sue agenzie di sicurezza: “come è possibile – dicono – che il governo federale si tiri indietro mentre le sue forze di sicurezza chiudono deliberatamente un occhio di fronte alle grida e ai gemiti di cittadini inermi e indifesi che rimangono un facile bersaglio nelle loro case, fattorie, strade ed ora persino nei loro luoghi di culto?”. L’8 febbraio una delegazione in visita al Presidente aveva ribadito l’allarme della Conferenza Episcopale: “da allora – sottolinea il comunicato – il bagno di sangue e la distruzione di case e di fattorie sono aumentati in intensità e in efferatezza”.
In Ciad i vescovi da parte loro si oppongono alle modifiche costituzionali decise dal governo il 10 aprile nell’ambito del processo di creazione di una “quarta repubblica” che dovrebbe essere in grado di affrontare meglio i problemi del paese. La conferenza episcopale condivide invece la preoccupazione che gli emendamenti servano a rendere praticamente perpetuo il potere dell’attuale presidente, Idriss Déby Itno, al potere con un colpo di stato dal 1990 e già al quinto mandato grazie al fatto di aver ottenuto l’eliminazione dalla costituzione dell’articolo che proibiva ai cittadini ciadiani di svolgere più di due i mandati presidenziali. I nuovi emendamenti tra l’altro prolungano da cinque a sei anni il mandato presidenziale ed estendono i poteri del capo dello stato. La conferenza episcopale deplora che dei cambiamenti così fondamentali non siano sottoposti al giudizio dei cittadini tramite referendum, come la costituzione prevede, e che invece questi ignorino del tutto quello che sta succedendo. Inoltre temono che il processo falsi ulteriormente le regole democratiche e accentui la divisione tra la popolazione.
Congo, Malawi, Nigeria, Ciad, altri paesi ancora. Così la Chiesa si fa coscienza di un continente combattendo ogni giorno per il bene comune: “la politica deve promuovere il benessere di tutti – è il loro appello – e non solo di quelli che sono legati al potente di turno”.