In Sudan (ma non solo) è stata scoperta una vera e propria “mafia” che gestisce i transiti dei rifugiati verso l’Occidente e tutto è gestito dall’ONU: mazzette, omertà e rarissime punizioni per chi viene scoperto. A dimostrazione che nessuna burocrazia mondiale potrà mai sostituire la vera carità di cui l’Africa ha bisogno.
Uno scandalo coinvolge il personale delle Nazioni Unite in Sudan, denunciato a metà maggio dall’agenzia di stampa Onu Irin. Il Sudan ospita 1,2 milioni di rifugiati e richiedenti asilo provenienti quasi tutti da altri stati africani, dalla Siria e dallo Yemen. Come nel resto del mondo, sono sotto mandato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR), e per lo più vivono in centri e campi profughi dove ricevono assistenza. Alcuni aspirano a trasferirsi altrove, per la maggior parte in un paese occidentale. Ma la procedura di riallocazione è molto complessa. L’intera pratica richiede come minimo settimane (nei casi di emergenza), ma di solito mesi e anche anni. Per accelerarla e per concluderla con successo c’è chi è disposto a pagare e nello staff dell’Acnur c’è chi ne approfitta.
La Irin ha raccolto testimonianze e dati dai quali emerge uno scenario di corruzione cronica, endemica. I dipendenti incaricati dell’assistenza legale ai profughi, che dovrebbero fornirla gratuitamente e in modo imparziale, favoriscono invece chi è in grado di pagare a scapito di chi non ne ha i mezzi. I profughi ospitati in Sudan dicono che completare una pratica di riallocazione, ottenendo i documenti necessari, costa in media 15.000 dollari a persona. Riallocare un’intera famiglia costa da 35.000 a 40.000 dollari, il prezzo per le donne è tre volte superiore, se sono originarie dell’Eritrea. Il denaro spesso viene fornito da parenti residenti in Europa o altrove. Le mazzette vanno a organizzazioni composte da mediatori e personale Acnur.
Gli espedienti per munire dei documenti necessari i profughi variano. Un giovane eritreo ha raccontato che gli è stata attribuita una finta moglie, una donna anche lei in attesa di riallocazione e disposta a pagare 12.000 dollari, per aumentare le probabilità di successo di entrambi. Un vedovo, padre di tre figli, che si è visto rifiutato il permesso di trasferirsi in Canada, ha però scoperto che una delle sue figlie risultava riallocata, il che può solo voler dire che qualche dipendente Acnur ha rubato i dati della sua famiglia e li ha usati per altri rifugiati. “La chiamiamo mafia – dicono i profughi – quei dipendenti dell’Acnur dovrebbero prendersi cura di noi e invece pensano solo a se stessi”.
Non succede solo in Sudan. Il fenomeno della corruzione tra i dipendenti Onu, in particolare quelli incaricati di proteggere e soccorrere i profughi, è diffuso. L’Ispettorato generale dell’Acnur, che ne controlla le attività e le operazioni svolgendo ispezioni e indagini su casi di cattiva condotta, nel 2017 ha ricevuto complessivamente quasi 400 denunce di frodi, oltre che di abusi e sfruttamento sessuale, che nella metà dei casi sono risultate fondate. Tuttavia Irin ha scoperto che molte delle persone accusate di corruzione in Sudan risultavano ancora dipendenti dell’Acnur nel febbraio del 2018.
Né si tratta di un problema recente. Accuse di corruzione ricorrono nel tempo. In Kenya, ad esempio, nel 2001 era stato scoperto un racket che estorceva denaro ai profughi, talmente esteso da rendere milioni di dollari. Si andava dai 25 dollari per mettere piede in un campo Acnur locale fino a una cifra tra i 1.000 e i 4.000 dollari per una pratica di riallocazione.
Secondo un dipendente dell’Ispettorato generale, Frank Montil, tutti sanno, ma nessuno parla. Chi lo fa chiede l’anonimato. È il caso di un ex membro dello staff Onu operativo nella sede di Khartoum secondo cui “la diffusione della corruzione negli uffici Acnur in Sudan è di portata mai vista ed è una situazione che dura da tanto tempo, ma che è nettamente peggiorata negli ultimi quattro anni senza che siano stati presi provvedimenti per contrastarla.
“Chi ne parla – ha spiegato – perde il lavoro, subisce attacchi e molestie. Sono sicuro che molti dipendenti Acnur sanno che cosa succede, ma non ne vogliono parlare perché sanno che tanto non cambierebbe niente. Anche il Commissariato generale a indagare ci mette un sacco di tempo e alla fine non succede niente. Così tutti preferiscono starsene zitti”. “Frodi e corruzione – si difende l’agenzia Onu tramite il suo portavoce, Melissa Fleming – non sono tollerate perché comprometterebbero seriamente la fiducia delle persone vulnerabili di cui prendiamo cura e di chi ci sostiene. Se si verificano devono essere sradicati. L’Acnur incoraggia vivamente personale, partner e profughi a denunciare ogni caso di sfruttamento o di abuso. Ci impegniamo a fare del nostro meglio per sostenere e proteggere sia le vittime che i testimoni di corruzione. Ogni accusa, se provata, porta a sanzioni contro i colpevoli, incluso il licenziamento”.
L’Onu emette proclami grondanti rassicurazioni a ogni scandalo che coinvolge le sue agenzie e, come spesso succede, i caschi blu delle missioni di peacekeeping i quali, notoriamente, scelgono come vittime, a cui chiedere ad esempio prestazioni sessuali in cambio di cibo e favori, i profughi più indifesi e vulnerabili: le donne e i bambini. Per molti la soluzione è semplice: portare i profughi in Italia, in Europa, aprendo dei “corridoi umanitari”. Si accontentano ovviamente di portarne qualcuno, annunciandone l’arrivo con fiera soddisfazione per la missione compiuta. D’altra parte sono pochi i profughi che accettano la prospettiva di un esilio definitivo.
Tutti, o quasi, non chiedono che di tornare a casa. Volenti o nolenti restano nei campi Acnur. Meglio sarebbe concentrare sforzi, attenzione e risorse per proteggerli tutti dagli abusi e dalla corruzione, piuttosto che scegliere di salvarne qualcuno.