Se è vero che l’uomo è quell’animale che si interroga sul significato del suo vivere, difficile, anzi impossibile non chiedersi: che senso ha un evento storico così straordinario e drammatico come questa pandemia? Ovvero, che cosa dice un avvenimento così inaspettato e sconvolgente riguardo le questioni decisive del cuore dell’uomo del terzo millennio?
Ebbene, l’impressione è che quella del virus sia una cocente sfida agli intoccabili “dogmi” del nostro tempo e in primo luogo a quel pensiero dominante a livello mondiale che va sotto il nome di “politicamente corretto”. Per capirlo, facciamo un passo indietro e chiediamoci che cosa unisce le posizioni umane che cadono sotto questa definizione, ovvero andiamo a vedere qual è in definitiva il denominatore comune di quel formulario non scritto che è come la base comune e obbligatoria di ogni discussione, assolutamente innegabile e ingiudicabile, pena l’esclusione dalla società civile contemporanea.
In definitiva, i più importanti dogmi del politicamente corretto mi pare si riassumano in 3 idee relativi a 3 grandi ambiti dell’esistere umano: quello dell’interiorità (con la relativa idea dell’equivalenza di tutti i desideri), quello della natura (associato all’idea del sempre più simile valore di tutti gli esseri viventi), quello del mondo (con la relativa idea dell’equivalenza di tutte le culture).
A voler ridurre queste 3 idee in un solo sintetico proposito, potremmo dire che la grande utopia che vi sta sotto è alla fine una sorta di “iper-uguaglianza”: il proposito cioè di abolire ogni sorta di gerarchia possibile legata all’essere umano, per cui ogni amore è buono e giusto a priori, la natura umana si confonde con la tutta la natura circostante, ogni popolo ha il suo modo di vivere perfettamente equivalente a quello di ogni altro. Chi se la sente oggi di negare tutto questo in un pubblico consesso? Per quel che si può vedere, pochi e per poco tempo, e in ogni caso con efficacia vicina allo zero in tutti i luoghi dove si forma l’opinione pubblica.
Sì, tutto vero, tranne un’eccezione: sua maestà il coronavirus.
Il quale può permettersi il lusso di negare ogni minuto a reti unificate quel principio che è il cuore di quest’”iper-uguaglianza”: la pretesa di una autonomia umana assoluta, senza carne e senza verità.
Il virus ci ricorda, infatti, drammaticamente, in ogni istante, che è dalla carne che viene la verità che salva o perde l’uomo, non dalle sue idee per quanto apparentemente perfette: da tutte le radio e tv ci ripete che ogni progetto è impotente davanti alla realtà, che basta un minuscolo essere per fermare ogni nostra attività. Ovvero, dall’altra parte, ci rende evidente che se la microscopica carne di un microbo può influenzare così in negativo le nostre vite, allora solo dalla medesima carne può venire ciò che rende vera e grande la vita, ciò che risponde davvero al nostro desiderio di libertà e di felicità.
Tutto lo sforzo del politicamente corretto va invece nella direzione diametralmente opposta: la perfetta uguaglianza – intesa come senso ultimo dell’umanità – significa infatti che non c’è “qualcuno” che possa donarmi un di più, ovvero vuol dire la radicale autonomia dell’uomo da qualsiasi “bellezza in carne e ossa” che lo superi. Se non esiste un bene infinito e vero per il cuore dell’uomo, infatti, allora non c’è differenza sostanziale tra la vita umana e quella della natura circostante (la tentazione di ogni ambientalismo ideologico), non c’è una cultura umana che possa darmi una “buona notizia” (e quindi tutte le culture possono mescolarsi senza problemi – la pericolosa utopia insita nell’immigrazionismo) e infine non c’è un altro essere umano (la donna) che può iniziare a svelare la vera bellezza che il cuore dell’uomo cerca (la disperazione nascosta nell’ideologia omosessualista).
Ma, cancellata la verità, viene meno anche la libertà: se non esiste differenza, se tutte le scelte sono equivalenti – ovvero, letteralmente, se tutto è indifferente – la libertà muore (come insegnava già Buridano parecchi secoli fa). Così, ecco che l’uguaglianza radicale è divenuta pensiero unico mondiale obbligatorio, nella forma dell’abolizione della differenza tra le culture umane, tra l’uomo e gli altri esseri viventi, tra uomo e donna.
Difficile non vedere una continuità storica e ideale del PC del “politicamente corretto” con il PC del “partito comunista” (secondo la felice formula di Marcello Veneziani). Il comunismo è stato, infatti, il più grande tentativo politico e sociale di eliminare la verità di Dio dal cuore dell’uomo, dichiarando – guarda caso – l’uguaglianza materiale, carnale di tutti gli uomini. Il politicamente corretto è infine un comunismo che da carnale diviene spirituale, ovvero porta il suo attacco alla verità dentro il cuore stesso dell’umano e lo fa senza violenza fisica, senza conflitto.
In fondo, tutta la logica del politicamente corretto è contro quella “differenza” che salva l’uomo e che agisce a partire dalla carne, si rende sperimentabile nella carne: in sintesi, è una guerra all’Incarnazione (che proprio il 25 marzo festeggiamo, forse quest’anno con più grande coscienza). Ovvero la “logica del mondo” è alla fine una sfida aperta a quella verità, Cristo, che risponde al desiderio del cuore umano (per cui, non tutti i desideri sono uguali), che dice la grandezza della natura umana (per cui, l’uomo è infinitamente differente dalla natura che lo circonda) e che arriva attraverso la storia di alcuni uomini (per cui, c’è una differenza tra le culture).
Fin dagli albori del Cristianesimo, siamo stati avvisati dell’unico vero pericolo da cui occorre guardarsi: perdere la fede. Il criterio da usare è sempre quello indicato da Giovanni, il discepolo che ha seguito Gesù fin sotto la croce: «Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio» (Gv 4,2).
Oggi un virus ricorda drammaticamente, penosamente al mondo – e anche alla Chiesa, che non è esente da questa tentazione – proprio la “carne” da cui arriva quella differenza che il mondo sembra voler dimenticare. Se è così, la fatica e il dolore di questo tempo non sarà insensato.