La scienza medica ha fatto passi da gigante. È un’affermazione paradossale – per non dire urtante – in questo preciso istante, nel momento in cui il mondo geme sotto il tallone del coronavirus.
Eppure questo fatto, per quanto tragico, non può farcene dimenticare un altro: che da almeno trent’anni la letalità delle malattie infettive continua a diminuire.
È un effetto dell’abbassamento della mortalità dei tre grandi killer microbici: tubercolosi, aids e malaria. Questa diminuzione si deve a un plesso di cause. Ma il progresso della scienza medica vi gioca certamente una parte decisiva.
Nel caso dalla tubercolosi (che comunque ogni anno uccide ancora 1,2 milioni di persone in tutto il mondo) il miglioramento deriva dal mix tra antibiotici e migliori condizioni igieniche; l’aids è sotto controllo grazie a una gestione formidabile – frutto della pressione delle ONG – allo scopo di ottenere dei farmaci a buon mercato che non solo hanno permesso di trattare e salvare i pazienti, ma anche di impedire lo sviluppo dell’epidemia; la malaria invece è diminuita in maniera spettacolare grazie alla scoperta dell’artemisinina, un farmaco estratto da una pianta cinese, ma anche per merito di zanzariere impregnate di insetticida.
Anche le infezioni respiratorie sono fortemente diminuite, passando dai 4 milioni di morti del 1990 ai 2,6 del 2019: un calo significativo dovuto essenzialmente agli antibiotici e alla vaccinazione contro lo pneumococco.
TRIONFO O SCACCO DELLA SCIENZA?
Riconosciuta questa verità – il progresso, l’efficacia della scienza – il “successo” del coronavirus prova anche la verità opposta: il fallimento, e dunque il limite della scienza. Forse lo avevamo dimenticato, ma la medicina non è una specie di infallibile religione della scienza, un magico risolutore dei nostri problemi, la risposta sicura a ogni nostra paura.
La scienza medica è una risposta umana al dolore umano. Ma è poco più di un balbettio di fronte all’immenso strazio della sofferenza che ogni giorno sferza la terra. È proprio la sua natura di opera dell’uomo a negarle ogni pretesa salvifica. Come salvare l’uomo quando questi, prendendo a prestito le fulminanti parole di Nicolàs Gòmez Dàvila, è precisamente un «problema senza soluzione umana»? (*)
Tuttavia qualche irriducibile scientista potrebbe insistere ancora: quando mai prima l’autorità scientifica e le leggi della statistica hanno avuto tanto impatto sulla società come nel nostro tempo? La libertà del 40% degli esseri umani non è stata sospesa sulla base di un semplice calcolo delle probabilità di contagio? I droni non sorvolano forse le nostre città per far rispettare la quarantena?
E allora come non vedere in questo il trionfo della scienza, il vertice del suo potere?
Tutto vero. Tranne la conclusione finale, perché a ben vedere, come osserva acutamente la filosofa Marianne Durano, il messaggio implicito lanciato dai calcoli statistici, da esperti, politici e droni di ogni risma si trova esattamente all’opposto di una padronanza totale.
Giusto al contrario, scrive Durano sul sito della rivista “Limite”, questo messaggio reca testimonianza «della nostra totale ignoranza del virus; dell’incapacità flagrante del pensiero scientifico di anticipare l’evoluzione della malattia, di consigliare efficacemente i politici».
Anche la drammatica, scandalosa penuria di materiale medico e di posti letto, per non parlare della disorganizzazione, provvede a dimostrare che non viviamo in una tecnocrazia e che la parola degli esperti non determina le decisioni del governo.
Le controversie sorte attorno all’efficacia di alcuni farmaci – ad esempio la clorochina impiegata in Francia dal professor Raoult – o sull’utilità delle mascherine, il conflitto di interpretazioni e di soluzioni tra esperti, ricercatori, medici rivelano la vera natura della scienza: «una cacofonia piena di incognite, un eterno dibattito pieno di congetture e confutazioni. Ciò che il grande pubblico scopre grazie a questa polemica è quanto la filosofia della scienza afferma da sempre: nella scienza la verità non è niente altro che un’ipotesi che nessuno ha ancora smentito».
La scienza non è un oracolo infallibile. L’indeterminazione della politica attuale non è altro che il risultato, anzi lo specchio di questa «indecisione consustanziale alla parola scientifica» la quale non può che ragionare sulla base di statistiche perché in definitiva essa «consiste nel ridurre l’ignoto – il Covid-19 – al già noto – la Sars per esempio».
SI APRE UNA STRADA PER LA MORALIZZAZIONE DEL POTERE?
Per questa ragione la scienza è incapace di assumere su di sé la responsabilità della decisione politica. Aristotele, e con lui tutta la filosofia politica fino alle utopie positivistiche, definisce la politica come l’arte della deliberazione, vale a dire come la capacità di prendere delle decisioni a riguardo di fatti indeterminati alla luce di circostanze e situazioni sempre particolari.
La scienza, ben diversamente, ricerca invece le leggi di fenomeni universali e costanti. Ecco perché nessun comitato tecnico-scientifico può esautorare la politica e decidere al suo posto.
Viceversa, prosegue il ragionamento di Durano, l’epidemia e le incertezze della scienza costituiscono una chance per riportare in auge quella grande tradizione filosofica e morale che pone la dignità della vita umana al di sopra di ogni altra cosa. Anche al di sopra dell’economia, pesantemente limitata e messa in pericolo per preservare nell’immediato la vita dei membri più deboli, più anziani, più malati della società.
Così «la crisi attuale restituisce allora al governo la sua dignità e la sua schiacciante responsabilità: si tratta proprio di giudicare ciò che è bene fare in assenza di certezze scientifiche. La politica cessa allora di essere indicizzata su delle cifre – che devono sempre essere interpretate – ma deve assumere il suo carattere profondamente morale».
Possiamo chiederci allora se lo scacco della scienza non possa aprire uno spazio preliminare a ciò che Luigi Sturzo definiva la «moralizzazione del potere»: una politica capace di riconoscere il primato della morale, intesa come saggezza e conoscenza del bene.
È anche la speranza, non la certezza, di chi scrive.
(*) Per un cristiano, inutile dirlo, il «problema umano» nasce da quella ferita profonda nel cuore dell’uomo che chiamiamo peccato – e col peccato, in un’ottica di fede, il suo salario: la morte (cfr. Rm 6, 23).