Nell’anniversario della sua morte, rendiamo omaggio a Luigi Calabresi, il commissario di polizia ammazzato da terroristi comunisti il 17 maggio 1972, al termine di una campagna diffamatoria (orchestrata dal giornale Lotta Continua) senza precedenti nella storia della repubblica italiana. Calabresi era un fervente cattolico: lo testimonia una sorta di “testamento spirituale” del giovane funzionario ovvero la trascrizione di un intervento registrato nel novembre del 1966, quando frequentava a Roma il corso di formazione per commissari di pubblica sicurezza. L’occasione veniva offerta da una tavola rotonda organizzata dalla rivista “Epoca” che vedeva come protagonisti un gruppo di giovani «che contestavano la contestazione nascente». I partecipanti al dibattito erano stati chiamati a formulare una riflessione in merito a tre argomenti: il sesso e i rapporti di coppia, la sincerità, l’impegno sociale della gioventù. Qui è riportata la prima parte dell’intervento del futuro commissario (classe 1937) tratta dal libro della moglie Gemma Capra “Mio marito il commissario Calabresi” (a cura di Luciano Garibaldi, Paoline, Milano 1990, pp. 14-16). Le considerazioni di Calabresi si rivelano più che mai attuali, pur a distanza di quasi cinquant’anni, e soprattutto danno testimonianza di un’anima profondamente cristiana.
«Ancora qualche settimana, e sarò commissario di pubblica sicurezza. Lo dico perché sappiate in quale mondo sto per entrare con queste mie idee. Ma è una strada che ho scelto per vocazione, perché mi piace, perché sono convinto, perché costituisce una prova difficile. Avrei molti altri modi di guadagnarmi uno stipendio, ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuol vivere una vita profondamente, integralmente cristiana. Io sono giovane. Ma riandando indietro con la memoria, per aver letto o sentito dire, mi pare che un tempo il metro con cui si valutavano gli uomini era diverso. Si valutavano per ciò che erano, per ciò che rappresentavano, per la posizione e la stima di cui godevano, per il gradino che occupavano nella scala sociale, e così via. Oggi invece quello che conta è il successo, questa medaglia di basso conio che su una faccia porta stampato il denaro e sull’altra il sesso.
Se volessi intascare e magari spendere medaglie come questa non andrei in polizia, dove si resta poveri. Non andrei coltivando ideali buffi di onestà e di purezza. Purtroppo sono fatto in un certo modo, appartengo a un gruppo neanche tanto scarso di giovani che vuole andare controcorrente. Noi sentiamo forse più degli altri lo sfasamento, lo squilibrio, il turbamento, perché in ogni istante della giornata vediamo noi e vediamo gli altri, mettiamo noi stessi a confronto con gli altri; apparteniamo a due mondi che si scontrano, e perciò ci sentiamo in imbarazzo noi e si sentono in imbarazzo gli altri; in questo mondo neopagano il cristiano continua a dare scandalo, perché il fine che persegue, lo scopo che dà alla sua vita non coincide con quello dei più. Ecco il turbamento di cui parlavo: sentiamo di vivere, tutto sommato, in un mondo non nostro, che tende ad escluderci, a sopprimerci.
Non c’è presunzione in quello che dico. Infatti noi non siamo una categoria di eletti: ci vuol altro! Solo Dio sa chi sono i veri eletti. Però il mondo, così com’è, lo sentiamo ostile: i valori in cui crediamo non riflettono i valori che governano la vita degli altri.
Sentiamo però di avere un gran vantaggio. Se il non credente fallisce e non realizza gli ideali suoi, cade nello sconforto più completo, nella disillusione più amara. Il giovane cattolico, veramente cattolico, avrà le sue crisi passeggere, che però si risolveranno, perché c’è un aiuto di ordine superiore che s’innesta nella sua realtà e nella sua umanità. Dico di più: so bene che il laico e il pagano possono anche avere una rettitudine di fondo, una morale severa che addita loro obiettivi non edonistici; però se gli scopi vengono riposti in cose puramente terrene, fossero le più nobili e le più belle, poi, quando i tempi e la società non consentono di realizzarle, subentra lo sbandamento morale, la delusione. Io, per quanto posso, cerco di mettere in guardia i giovani su questo punto. E non mi riferisco alle minoranze colte: per esempio, ai giovani comunisti, che vivono per una loro fede, rispettabilissima se è praticata sinceramente. No, mi riferisco a tutti gli altri giovani di cui si può parlare e che costituiscono la maggioranza amorfa.
Nella mia professione chissà quanti ne avvicinerò, e saranno probabilmente i portatori delle crisi più laceranti e più gravi; ciò dipende dal fatto che non si pongono problemi quando è il momento, seguono la filosofia del non-pensiero, e questo è un vero dramma, perché non si sa mai da che lato affrontarli, come prenderli.
Ho pratica di questi miei fratelli. Vedo la loro infelicità soprattutto in quel passaggio obbligato che è il rapporto fra i sessi. La sfera psichica che entra per prima in funzione non è quella dell’intelligenza (cioè capirsi, conoscersi), ma quella dell’affettività, che sta un pochino più in basso: vale a dire io piaccio a lei e lei piace a me, non ci poniamo molti problemi, stiamo insieme e basta, facciamo un po’ di strada e poi si vedrà. Poi si vedrà? Non intavolano un discorso perché non gli fa comodo intavolarlo; il ragazzo e la ragazza tipo, oggi, hanno paura di discutere. Ma quando il momento arriva, quando i problemi inevitabilmente sorgono, è troppo tardi, non si sono mai conosciuti, non si sono mai intesi.
Per quanto mi riguarda, darò a mia moglie (io non so chi è, come si chiama, dove vive, ma so che in qualche posto vive) un amore cristiano; e avremo subito figli, e saranno molti, e li cresceremo. Un medico mi diceva: si impara ad essere vecchi quando si è giovani. Io aggiungerei che si impara ad essere dei buoni coniugi quando ancora non si è sposati. È un problema che non si può affrontare e risolvere solo quando si presenta; presuppone uno sforzo, un allenamento, una preparazione che non si improvvisa».
[A cura di Emiliano Fumaneri]