Dopo aver visto come nella storia si è costituito il pregiudizio anticattolico della “Chiesa contraria al sesso”, ora ne vediamo gli effetti sul presente: nasce una nuova forma di dominio, il “biopotere”, che, attraverso il controllo del sesso, esclude la Chiesa dal dibattito pubblico e ha l’ultima parola sui temi della vita. [Seconda e ultima parte]

La produzione di discorsi sul sesso tende a diventare un’esclusiva appaltata alle nascenti discipline scientifiche (psichiatria, pedagogia, criminologia, medicina ecc.) che, come ha acutamente sottolineato Michel Foucault, rispondono a una forte domanda di disciplinamento sociale, dando fondamento a ciò che il controverso filosofo francese usava definire “biopotere”. In generale la questione sessuale in chiave anticattolica può essere considerata un’arma politica.

Al termine della sua indagine sull’anticattolicesimo contemporaneo, il sociologo Philip Jenkins arriva a concludere che l’idea di una «minaccia sessuale» incorporata nel sacerdozio celibatario e l’«attacco alla Chiesa come dispensatrice e professionista della sessualità depravata» sono da considerarsi il «cuore della retorica anticattolica».

L’accusa del sesso viene brandita alla maniera di una clava verbale, afferma Jenkins, nel momento in cui la Chiesa viene percepita da movimenti politici e gruppi di interesse come un significativo ostacolo politico. È un’esigenza di delegittimazione che spinge ad adottare una strategia del discredito. E all’interno di questa strategia la polemica a sfondo sessuale gioca un ruolo centrale. I totalitarismi novecenteschi hanno potuto attingere a piene mani a questo serbatoio di invettive demagogiche.

Ad esempio il mito stereotipato della perversione cattolica è attestato nel periodo della guerra civile spagnola. Bartolomé Bennassar (nel suo La guerra di Spagna, tr. it., Einaudi 2006) ha documentato le accuse sessuali di parte comunista, tutte tese a rimproverare alla Chiesa d’essere un «tempio della sodomia e del lesbismo» mentre sui fogli socialisti proliferano le denunce dei seminari come «veri antri di corruzione, in cui la virilità si atrofizza e degenera in aberrazioni assurde e ripugnanti, in cui il vizio umiliante di Onan raggiunge la sua più alta espressione».

In quegli stessi anni slogan analoghi percorrono la Germania nazista. Nel tentativo di assicurarsi il monopolio in campo educativo il Reich avvia infatti una mirata campagna denigratoria per fiaccare il cattolicesimo, inscenando tra 1933 e il 1937 i cosiddetti Priesterprozesse (“processi ai sacerdoti”). Decine di sacerdoti e religiosi vengono incriminati per presunti atti di pedofilia e violazioni delle leggi valutarie. La polemica assume toni anche più virulenti dopo la pubblicazione, nel marzo 1937, dell’enciclica Mit brennender Sorge. Scende in campo perfino il ministro della Propaganda Goebbels, che non disdegna di scagliarsi in prima persona contro «i delitti contro natura [che] sono ormai praticati in massa nei conventi» e la «generale decadenza morale» del clero, a suo dire diffusa «in una misura così spaventevole e scandalosa quale quasi mai si era verificato nell’intera storia della cultura dell’umanità».

Questa breve rassegna è sufficiente a mostrare la persistenza e l’infinita adattabilità dell’”accusa del sesso”. La partita, in fondo, è quella del controllo. E il controllo è una periferia del potere. Controllare il sesso equivale a esercitare il dominio sulla vita umana. Non a caso l’accusa del sesso, questa vera e propria macchina mitologica anticattolica trova oggi i suoi più assidui e zelanti fruitori nell’ambito della militanza LGBT, tra le organizzazioni di stampo femminista e quelle di orientamento liberal, la cui agenda politica non di rado viene a confliggere coi princìpi non negoziabili propugnati dalla Chiesa in tema di famiglia e bioetica.

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