Qualcuno ha visto i cattolici in politica? La “Quarta Gamba” è già scomparsa, la Lega (pur con l’ottimo Fontana) ha fatto fuori i temi etici e tutto tace. Si sente solo qualche flebile voce sull’immigrazione, ma prona agli opposti estremismi… E’ l’ora di una scelta di sana follia?
Che fine hanno fatto i cattolici in politica? A poco più di tre mesi dalle politiche è utile farsi questa domanda.
Cominciamo dalla cosiddetta “quarta gamba”, il rassemblement dei cattolici moderati guidato da Maurizio Lupi e da Enrico Costa che sembra essere scomparso dalla scena dando così ragione a chi vi vedeva una specie di lista civetta del centrodestra per intercettare il voto del Family Day.
A non pochi la Lega di Matteo Salvini sembrava – e ancora sembra – un terreno più fecondo per possibili “contaminazioni” cattoliche. Dal contratto di governo col Movimento Cinque Stelle però è sparito ogni riferimento ai temi etici. Come ha ricordato Maria Edera Spadoni, vice presidente della Camera per il Movimento 5S, la pax bioetica tra pentastellati e leghisti rappresenta un sacrificio necessario. Un patto di non aggressione indispensabile per trovare una quadra tra due partiti dalle «sensibilità molto diverse». Inoltre Matteo Salvini e altri importanti esponenti del Carroccio (come Roberto Maroni e Attilio Fontana) hanno circoscritto con le loro dichiarazioni lo spazio di manovra di Lorenzo Fontana, il ministro “più cattolico” della compagine governativa già penalizzato da un ministero senza portafoglio. Pertanto non si toccheranno i temi caldi dell’ultima legislatura (come le unioni civili e il biotestamento) in quanto esclusi dal contratto di governo. Sono altre le priorità.
Sta bene, ma la morale in politica non è un grazioso orpello. È una condizione essenziale. Il dramma del nostro tempo consiste precisamente nell’aver separato il diritto e la politica dalla morale. Non è questa la sede adatta per ricostruire il processo storico che ha portato a una simile separazione. Ci limiteremo a evidenziare le conseguenze di una politica fondata sul sospetto verso la verità morale.
Senza morale, la politica si riduce a una governance senza princìpi né idee che non si esprime su questioni che esulino da quelle “tecniche” (essendo priva, come talvolta si sente dire, di “ideologia”). Con Saint-Simon possiamo dire che il governo degli uomini viene sostituito da una pura amministrazione delle cose. La trasformazione delle persone in cose. È esattamente questo il prodotto dell’immoralismo. Lo dimostra, citando Kant, il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre: «[…] la differenza tra una relazione umana non ispirata alla morale e una ispirata ad essa coincide esattamente con la differenza fra una relazione in cui ciascuno tratta gli altri in primo luogo come mezzi per i propri fini, e una in cui ciascuno tratta gli altri come fini in se stessi» (Dopo la virtù, tr. it. Feltrinelli, Milano 1988, p. 38).
Una volta levata la morale dalla politica, la persona diventa un mezzo, uno strumento da manipolare per raggiungere i propri fini. E così la forza, la brutale necessità, diventa la misura di tutte le cose.
Non a caso tutti i grandi immoralisti della storia (Machiavelli, Hobbes, Nietzsche, Gide, Sade, solo per citarne alcuni) possono essere in qualche misura considerati debitori del sofista Callicle, il cantore della legge di natura come diritto del più forte. Lo “stato di natura” per Callicle equivale a sancire brutalmente, come “fatto”, il trionfo della forza. È questo il “realismo” (la Realpolitik contrabbandata come prudenza) a cui oggi – ahinoi! – anche tanti cattolici guardano con convinzione.
Ma se contassero solo i “fatti”, il diritto nemmeno avrebbe più ragione di esistere. Il diritto esiste per affermare che certe cose non si fanno (perché sono “fatti”, per l’appunto). È la sua natura. Il fatto che ci sia chi ruba non è buon motivo per smettere di punire il furto (sul piano legale) e di condannarlo (sul piano morale). Il diritto che dovesse ridursi ad essere la voce del fatto compiuto, cioè della forza, perderebbe la sua stessa ragion d’essere. Per questo è inevitabile che la morale cacciata dalla porta rientri dalla finestra.
Anche il tema dell’immigrazione, antico cavallo di battaglia del Carroccio che sta agitando l’opinione pubblica per via del caso della nave Aquarius, non può essere affrontato su un piano puramente “tecnico-amministrativo”. C’è una infinita gamma di gradazioni intermedie tra la soluzione buonista (“tutti a casa nostra”) e quella cattivista (“tutti a casa loro”), tanti sono gli elementi da considerare. È irrinunciabile per uno stato sovrano mantenere il controllo sui propri confini nazionali, così come è impensabile che lo stato ammetta l’illegalità diffusa e il racket delle organizzazioni criminali che prosperano sul traffico e la tratta dei migranti. Allo stesso modo, sono fuori discussione le mancanze dell’Europa, incapace di concordare una politica comune sull’immigrazione per regolare in maniera ordinata – e non eternamente emergenziale – i flussi migratori. A complicare ulteriormente la situazione concorrono i fattori extrauropei. Scontato il riferimento all’enorme problema della Libia, destabilizzata dall’avventato (è il meno che si possa dire) intervento militare del 2011. Ma altrettanto disastrosa è la situazione di gran parte dei paesi di provenienza dei migranti. Ad esempio l’Eritrea, la Corea del Nord africana dove la diaspora verso l’Europa è incoraggiata addirittura dal regime che ha introdotto una tassa sulle rimesse provenienti dall’estero.
Inoltre una coscienza cristiana non può dimenticare che oltre alla politica internazionale c’è anche l’aspetto umanitario: tutti (o quasi) i migranti transitati dalla Libia, specialmente le donne, hanno alle spalle una storia di ferocia e violenze subite nei campi libici, nella traversata verso il paese nordafricano o nei loro paesi d’origine. Non si può giocare cinicamente sulla pelle di queste persone per prodursi in una esibizione di forza muscolare di fronte all’Unione europea, come se gli esseri umani imbarcati sui boat people non fossero altro che pedine (ossia strumenti irrilevanti) di un gioco strategico. Ma è quanto accade, inesorabilmente, quando la morale e l’etica passano in secondo piano.
Come contemperare tutte queste esigenze, tutte legittime? Non c’è una soluzione tecnica, more geometrico. Le buone ricette, anche in politica, si riconoscono dalla capacità di dosare gli ingredienti in maniera sapiente, la qual cosa richiede quella disposizione che gli antichi chiamavano phronesis: la saggezza pratica capace di orientare il comportamento morale e l’azione pratica. Ma come accedere alla saggezza se per principio si rinuncia alla morale?
Nel momento in cui il realismo della forza sembra trionfare ovunque, non possiamo non segnalare l’avventura, folle a viste umane, di una piccola compagnia di uomini che sta cercando di tracciare un sentiero nel cuore di Mordor. È il Popolo della Famiglia guidato da Mario Adinolfi e Gianfranco Amato. Si sta lentamente facendo strada, con fatica e tenacia, sulla scia dell’intuizione di don Luigi Sturzo. È ancora possibile, oggi, un soggetto politico autonomo e indipendente di ispirazione cristiana? È la sfida lanciata dal PdF, una scommessa che non manca di suscitare l’ilarità degli apostoli della praticità. In ultimo forse i realisti della forza avranno ragione a liquidare come “utopistica” l’opzione PdF. Chi può dirlo? Il Vangelo d’altronde non promette successi terreni, non proponendo altro che la Croce di Cristo. Ma una politica senza profezia, mi chiedo, è ancora una politica da cristiani? Non è, di nuovo, la politica ridotta a tecnica, la politica senza morale? Per questo è sempre bene ricordare quanto ha scritto una volta il saggio Gustave Thibon: «L’ideale compie la funzione di alzo: coloro che hanno maneggiato armi da fuoco sanno che per colpire lontano sulla terra, bisogna mirare alto verso il cielo».