Il vero cristiano non deve rassegnarsi all’inevitabile: deve confidare nell’impertinenza di un’orazione reiterata. (Nicolás Gómez Dávila)

«La persecuzione non è uno stato eccezionale nella vita della Chiesa. Se mai, l’eccezione è lo star bene». Il pensiero va a queste parole di don Primo Mazzolari mentre mi accingo a terminare la lettura di Una piccola matita. Vita di una donna cristiana in Pakistan (Berica Editrice). Ne è autrice una giovane donna di nome Zarish Imelda Neno. Molto attiva sui social, ha anche aperto un blog dove racconta la propria esperienza di vita e di fede.

È un libro prezioso questo, una storia di coraggio e di fede. Non contiene speculazioni, solo una serie di fatti: è esperienza vissuta in prima persona. In questo risiede la sua forza dirompente, perché «ad una teoria si può rispondere con un’altra teoria; ma chi può confutare una vita?» (Evagrio Pontico).

Parliamo di una testimonianza breve – scarna quasi quanto un rapporto – ma proprio per questo estremamente lucida e incisiva. La penna di Zarish non scade mai in una retorica sdolcinata: è capace di raccontare le linee essenziali di una realtà scomoda, perfino cruda a volte, schivando di netto i molti accomodamenti tanto cari invece a noi, gli imborghesiti cristiani occidentali.

In Occidente abbiamo esperienza del disprezzo culturale delle élites. Conosciamo l’avversione verso i valori cristiani veicolata dai mass media. L’anticattolicesimo come ultimo pregiudizio accettabile, come titolava un libro di qualche anno fa.

Ma ci è estranea, almeno per ora, la persecuzione capillare descritta da Zarish: la persecuzione che non colpisce soltanto le idee ma anche la carne viva della persona, la violenza morale e materiale che mira a opprimere la stessa esistenza individuale. Con tutto quel che essa comporta, a cominciare dalla formidabile pressione conversionistica e il suo pesante impatto sulla psicologia della vita quotidiana.

Un punto del libro mi colpisce molto: è il passo in cui Zarish descrive la necessità di «convivere con la paura». In Pakistan anche una semplice passeggiata al parco con le amiche può trasformarsi in una trappola mortale (il rischio di aggressioni o di attacchi terroristici è tutt’altro che un’ipotesi remota). E non solo: un cristiano pakistano deve imparare a combattere con questa gelida sensazione anche tra le mura di casa: alzare troppo la voce può esporre infatti a false accuse di blasfemia (1). Si teme anche ad accennare a questioni religiose al telefono: le chiamate potrebbero essere registrate e usate come capi d’accusa.

Il Pakistan, non a caso, è il paese di Asia Bibi, la donna cristiana accusata nel 2009 di aver oltraggiato il profeta e per questo imprigionata e condannata a morte. Solo nel 2018, dopo un autentico calvario, è arrivata per lei l’assoluzione. Ciò nonostante ha dovuto lasciare il paese e trasferirsi all’estero per il timore di reazioni violente.

Certo, non è sempre stato così per la piccola minoranza cristiana in Pakistan (l’1,6 per cento di una popolazione di 233 milioni di abitanti). Il libro ricorda come le cose siano precipitate dopo l’11 settembre. La discriminazione anticristiana esisteva anche in precedenza ma condizionava in misura minore l’esistenza ordinaria. Zarish ricorda con nostalgia il tempo non troppo lontano in cui i bambini indù, musulmani e cristiani potevano giocare assieme, farsi regali e anche cantare in compagnia i brani natalizi. Anche oggi non mancano esempi di musulmani di buona volontà e manifestazioni di solidarietà e apertura verso i cristiani. Nonostante l’odio e la persecuzione – che rimangono la regola – rimane ancora uno spazio di dialogo interreligioso.

Il libro si chiude con un messaggio – oso dire una profezia – indirizzato ai fratelli e alle sorelle cristiane d’Occidente.

La blogger vede avanzare forme di persecuzione anche nel mondo occidentale. Una persecuzione più “soft” forse, ma non per questo meno insidiosa. Si tratta, in sintesi, della dittatura del relativismo denunciata da Benedetto XVI. È il tentativo di schiacciare ogni forma di opposizione all’agenda politicamente corretta dei “nuovi diritti”: guai a non omologarsi al pensiero dominante in tema di aborto, matrimoni gay, gender, eutanasia. Molti segnali sono lì ad indicarlo: l’eccezione, la “comfort zone” dei cristiani occidentali sta per volgere al termine.

Ma ecco giungere da questa nostra sorella pakistana in Cristo un forte messaggio di speranza. Ci arriva attraverso la preghiera che sigilla le righe finali del suo scritto: «Perché sei morto per me, aiutami a vivere per te e, se necessario, a morire per te. Non lasciare che il mondo mi intimidisca. Aiutami a non vivere nel “politically correct”. Aiutami a essere forte, a non avere paura. Insegnami, Signore, a testimoniare sempre il Tuo Amore».

(1) In Pakistan, dove l’Islam è religione di stato, vige la cosiddetta legge antiblasfemia. Il codice penale pakistano punisce come reato punibile con la detenzione a vita o con la pena di morte la profanazione del Corano e gli insulti al Profeta Maometto. Anche se finora non ci sono stati giustiziati per blasfemia, sono numerose le persone imprigionate con accuse di questo genere. Resta il fatto, come si legge nel Rapporto sulla libertà religiosa curato da ACS (Aiuto alla Chiesa che Soffre), che «nella vita di ogni giorno la cosiddetta legge è spesso usata come uno strumento per perseguitare le minoranze religiose».

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