Il Coronavirus è la cosa più simile – che ci è stato dato di sperimentare – a una “sconfitta globale”, ovvero riguardante in qualche modo tutti gli esseri umani.
Ma non è questa la “sconfitta vera” per l’uomo: secondo il compianto vescovo Maggiolini, (recentemente riportato agli onori della cronaca nel libro Alessandro Maggiolini, un vescovo da prima pagina) questa si chiama “peccato”. E non riusciamo più a pronunciare questa parola, perché non riusciamo più a pensare alla nostra realizzazione vera, totale.
Ma se il virus riesce a ricordarci che esiste la possibilità di uno scacco per ogni uomo, allora forse sarà meno difficile ritornare a contemplare anche la (grande) possibilità di salvezza.
Ecco a voi, un riassunto di Apologia del peccato, spiazzante libro di Maggiolini, che difende l’indifendibile, per amore della creatura umana.
Introduzione
Il titolo dell’opera, “Apologia del peccato”, dice di per sé molto sulle intenzioni dell’autore. Il termine “apologia”, per cominciare, richiama immediatamente gli scritti dei primi cristiani in difesa della ragionevolezza della fede in Gesù Cristo. E di questo, in effetti, in prima battuta, si tratta. Ma, in seconda battuta, è un’apologia sui generis: è una difesa “del peccato”, ovvero di quel che appare meno difendibile in ottica di fede.
A che scopo difendere quel “peccato” che appare la cosa meno difendibile in ottica di fede? Per pura provocazione intellettuale fine a se stessa? No, lo scopo è più ambizioso. Quel che vuole indicare col suo stile paradossale il compianto vescovo di Como, Alessandro Maggiolini, è, in sintesi estrema, che la fede in Cristo ha a che fare con tutto l’uomo, fino all’abisso profondo del suo essere “peccatore”. Dimenticare questa profondità del cuore umano, far fuori questo misterioso “luogo” in cui l’uomo vuole o nega il suo destino infinito – ci avverte Maggiolini – significa porre le condizioni per non comprendere nulla della bellezza del Cristianesimo, come purtroppo, mestamente, sempre più vediamo intorno a noi.
Il peccato cancellato
Il tempo cui l’autore si riferisce è l’inizio degli anni ’80, ma la domanda “spietata” che si pone al riguardo è certamente riproponibile ai giorni nostri: ‹‹ Verrebbe subito da chiedersi se nel contesto culturale in cui ci si muove è ancora comprensibile la “tragedia” come peccato ››[1]. L’uomo contemporaneo, insomma, non contempla più lo scacco totale del suo esistere (che è il vero e unico esito del peccato) e quindi, dall’altra parte, non riesce più a pensare alla sua realizzazione vera, totale.
Insomma, prima che “assente”, il peccato è qualcosa di (anche solo teoricamente) incomprensibile, o almeno incomprensibile come male, all’uomo del nostro tempo. E, per giunta, questo non avviene affatto per un “eccesso di coraggio” nell’affrontare il destino, bensì per un desiderio neanche troppo nascosto di evitare il problema più cogente dell’esistere.
Così, quel che manca all’uomo contemporaneo anestetizzato riguardo al peccato è quel coraggio per sostenere il dramma della sua vita di cui parla Dostoevskij nel celeberrimo passo (citato dall’autore) de I Fratelli Karamazov, in cui il Grande Inquisitore dice a Cristo, tornato nel mondo e fatto prigioniero: ‹‹ Non c’è per l’uomo preoccupazione più tormentosa che quella di trovare qualcuno a cui restituire, il più presto possibile, quel dono della libertà che il disgraziato ha avuto al momento di nascere. (…) Tu sei venuto a portare l’amore all’umanità, ma ci siamo resi conto che l’uomo non è capace di portare la libertà dell’amore, e per questo (…) non permetteremo che tu ritorni nuovamente a turbarlo e a lanciarlo nell’avventura ››[2].
Stiamo portando a termine, noi moderni, o – peggio – magari abbiamo già completato questa amara “restituzione della libertà”? Questo, in ogni caso, è il vero “peccato”, questa è la portata vera della posta in gioco: non l’errare, non il timore e nemmeno la bestemmia – dirà Maggiolini nel seguito, come vedremo – ma il rifiuto del grande dono della libertà, che è apertura senza misura alla misericordia infinita che risponde.
Le obiezioni al peccato
Maggiolini non si nasconde le obiezioni al peccato così inteso, e quindi a quel Dio che vuole interagire fino in fondo con la nostra vita, ponendosi come termine ultimo e vero di ogni decisione morale. Tali obiezioni si “respirano nell’aria” e si possono ricondurre fondamentalmente a tre[3].
Le prime due sono apparentemente agli antipodi. La prima afferma che è proprio la presenza ingombrante di Dio (almeno quello presentato dalla Chiesa) – e non la sua assenza – che soffoca l’uomo, ponendo divieti che limitano la libertà. La seconda sostiene che Dio, più che essere una difficoltà, è solo una “facile consolazione”. Fedele al suo stile, Maggiolini, più che argomentare una risposta dottrinale, provoca l’interlocutore a un’ulteriore domanda: non sono, queste, immagini di Dio costruite ad hoc per evitare all’uomo di sperimentare fino in fondo la dipendenza da Dio? Il Dio che impone solo divieti, da un lato, e il Dio tutto accomodante, dall’altro, non sono facili vie di fuga per non fare i conti con il Dio autentico liberatore del cuore dell’uomo? Un Dio che, nella proposta di Cristo – al di là di qualche malinteso cui anche certi cristiani hanno contribuito ad alimentare – richiede un compito esigentissimo per la libertà umana: nulla di comodo e nulla di soffocante, dunque.
Rimane una terza obiezione al peccato, quella più radicale, che possiamo rinvenire nelle parole di Hesnard, citate da Maggiolini: ‹‹ Per la morale non potrebbe esservi che un male: il male realmente commesso, effettivamente arrecato all’uomo ››[4]. Una morale che dichiara fin da principio di fare a meno di Dio, che elimina alla radice il peccato, qualunque cosa questa parola voglia significare. L’unico male è quello visibilmente inflitto alla concreta persona umana, tutto il resto è la fantasia di un mondo che deve essere liberato dall’angoscia di un tormento senza senso. Anche qui Maggiolini risponde con un interrogativo, ovvero invita ad allargare lo sguardo invece di controbattere con risposte puntuali. Di fronte alla domanda ‹‹ perché mai bisogna rispettare l’altro? ››, ognuno di noi è spiazzato, compreso Hesnard. Anche qui, l’unica via per non ridurre la questione è aprire la libertà a Dio, ovvero a quel Mistero che, scoperto e amato nel tempo, può dare ragione della dignità di ogni uomo.
Difesa della bestemmia
Ancora una volta, è evidente come il cuore di tutto il testo di Maggiolini sia la libertà: un esempio paradossale aiuta a capire questa centralità. Scrive Maggiolini: ‹‹Si deve abitualmente prestar fede a chi dichiara la propria rivolta a Dio. Chi pecca ha il diritto di peccare e di essere accostato – stimato, starei per dire – come peccatore, se dichiara con sincerità e magari con tracotanza (…) la propria colpa››[5]. Siamo al culmine di quel gusto per il paradosso che percorre tutto il saggio: difendere il peccato significa riconoscere fino in fondo quella possibilità reale e totale di peccato che è l’ateismo, il rifiuto stesso di Dio da parte dell’uomo. Rifiuto che viene addirittura apostrofato come “diritto”. Perché è il Creatore stesso che ha voluto così: ‹‹Diversamente, v’è da chiedersi se non si consideri l’uomo come un essere “eterodiretto” (…): una sorta di “sì” anonimo dentro un gregge che cammina senza sapere dove››[6].
Certo, avere una possibilità non obbliga a esercitarla: l’elogio della bestemmia non è affatto invito alla medesima. Personalmente, leggo quest’estremo giudizio di Maggiolini come il modo più forte per invitare il suo prossimo a evitare un solo pericolo, l’unico che veramente compromette tutto alla radice: l’annacquamento della sua vita, della sua dignità, della sua libertà. Pare dire l’autore: anche la bestemmia, se vuoi, ma non la piattezza di un’esistenza senza il problema Dio.
La “libertà peccatrice” è cosa buona
Dopo aver delineato il “male” di una libertà senza peccato, Maggiolini descrive in che cosa consista il “bene” di una libertà capace di peccato.
Fin dall’inizio di questa ‹‹ piccola catechesi sulla libertà ›› emerge ripetutamente un medesimo fattore: un’irriducibile “apertura”. Il discorso infatti non si può chiudere in nessun modo: la libertà non può essere definita, né isolata, né compresa. E neppure evitata. Detto più precisamente, la libertà è apertura senza fine. Insomma, se accetta fino in fondo di fare i conti con la libertà in tutta la sua portata, l’uomo riscontra un’orientazione alla dipendenza e alla comunione ‹‹ con un Tu illimitato e assoluto ››. Un “Tu” che sarà poi pensato dalla Filosofia come “Dio” e che assumerà nella Rivelazione Cristiana connotati imprevedibili nella persona di Gesù; ma che, in ogni caso, non potrà essere negato come tensione e rapporto, a meno di non troncare indebitamente il cuore stesso dell’essere liberi. Insomma, dall’interno di un approccio totalmente “umano”, Maggiolini può affermare senza timore che ‹‹ la libertà dell’uomo emerge esattamente nel contatto, nel rapporto con Dio ››[7].
Ma il peccato è anche e soprattutto una realtà ben concreta, presente, tutt’altro che semplice possibilità astratta nella vita di ogni uomo[8]. Questo ad esprimere il fatto che la libertà non è solo un magnifico “dono”, ma anche un esigente “compito”, da esercitare nel presente, qui e ora. Non deve scandalizzare quindi il fatto che ci sia richiesto di affrontare delle autentiche prove: le tentazioni. Agostino: ‹‹ Nessuno può conoscere se stesso se non è tentato; (…) né può vincere senza combattere; ma il combattimento presuppone un nemico, una prova…››[9].
Siamo entrati quindi in un nuovo campo d’indagine: quella medesima libertà che definisce l’essenza ultima dell’umano, quando si ritrova compromessa nell’azione, scopre di vivere in un “teatro” che la supera, in cui, in particolare, giocano tre fattori “invisibili” che la condizionano nel profondo: il mondo, il demonio, la colpa d’origine.
[Fine prima parte – Leggi la seconda parte]
Note:
[1] A. Maggiolini, Apologia del peccato, Mondadori, Milano 1983, p. 18.
[2] F. Dostoevkij, I fratelli Karamàzov, Mondadori, Milano 1994, p. 354.
[3] Interessante notare come l’autore passi con disinvoltura dalle fonti letterarie a quelle sociologiche a quelle filosofiche. La continuità della trattazione non ne risente affatto per due motivi: a) il suo modo di procedere discorsivo permette questi passaggi anche se la concatenazione logica non è ferrea; b) l’argomentazione poggia sempre sulla centralità del dramma umano e questo tema favorisce l’apporto contemporaneo di più discipline.
[4] A. Maggiolini, Apologia del peccato, Mondadori, Milano 1983, p. 32.
[5] Ibidem, p. 49.
[6] Ibidem, p. 49.
[7] Ibidem, p. 65.
[8] Il tema della realtà e della gravità del peccato è in questo contesto solo accennato. Sarà in seguito ripreso dall’autore in profondità in Mi pento con tutto il cuore, suo saggio dedicato a tutto quanto consegue al riconoscimento del male compiuto.
[9] Ibidem, p. 76.