Il nuovo patto CFTA che vuole fare dell’Africa una grande area di libero scambio diventa un’occasione per propagandare le solite bugie contro l’Occidente dei “muri” e dell’”oppressione al Sud del mondo”. Dimenticando che i muri veri – quelli che impediscono una vera crescita del continente nero – sono quei problemi antichi che esistevano prima della colonizzazione…

Il 21 marzo a Kigali, capitale del Rwanda, il 10° vertice straordinario dell’Unione Africana si è concluso con la decisione di dar vita a un’Area di libero scambio continentale, CFTA l’acronimo inglese.

Come sempre quando si tratta di eventi africani, la notizia è stata data con enfasi ed è stata accolta con incondizionato entusiasmo: “un sogno che diventa realtà”, “una nuova alba”, “una pietra miliare”, “una giornata storica”…

Qualche mass media italiano – tra i pochi che ne hanno parlato diffusamente – non si è perso l’occasione per evidenziare come la parte del mondo “dipendente dal Nord e meno sviluppata” stia dando una grande lezione al Nord: mentre l’amministrazione Trump “minaccia dazi e muri”, l’Africa “prova ad alzare la testa”, “mentre l’America si chiude, il resto del mondo, quello più povero, continua ad andare verso un’altra direzione” esordisce un articolo di “Il Sole 24 ore” intitolato “Nasce una grande area di libero scambio. La rivincita dell’Africa parte dal commercio”.

Di quale rivincita si tratti l’articolo poi non lo dice. E in effetti non può, visto che parlare di rivincita è fuori luogo, inspiegabile. Che l’Africa “provi ad alzare la testa” è una osservazione ancora più bizzarra. Evoca l’esistenza di qualche forma di costrizione di cui finalmente l’Africa intenderebbe liberarsi. Invece i governi africani hanno imposto di loro iniziativa i dazi d’importazione astronomici in vigore sulle merci fabbricate all’estero: una scelta mai abbastanza criticata per quel che è, vale a dire una irresponsabile, rovinosa politica economica che, con il pretesto di proteggere l’industria locale, serve a far entrare milioni di dollari nelle casse statali, da cui gli africani al potere sono molto abili a “prelevarli”.

Ma, siccome non c’è limite alla falsificazione dei fatti e della storia quando si tratta di mettere l’Occidente in pessima luce – e descrivere per contro gli Africani come vittime innocenti che, se libere, avrebbero disposto di sé ben diversamente – ecco che la colpa dei dazi è dell’Europa, che ha colonizzato l’Africa e l’ha divisa in stati. Il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, ha commentato con queste parole la firma dell’accordo: “Un continente che è stato diviso 134 anni fa dalla Conferenza di Berlino ha deciso di integrarsi e di unirsi. Ci sono 84mila km di frontiere, 84mila km di ostacoli che fanno sì che gli scambi intra-africani rappresentino oggi appena il 17% del totale. È un’occasione enorme per l’Africa”.

Per chi non lo ricordasse, la Conferenza di Berlino si svolse nel 1884. Al summit, considerato l’inizio della corsa alla spartizione dell’Africa, i paesi europei in realtà discussero e decisero la creazione in Africa di due vastissime aree di libero commercio e concordarono anche la libera navigazione su tutti i 4.180 chilometri del fiume Niger. Furono in effetti tracciati dei nuovi confini a delimitare i territori coloniali. Quasi tutti gli africanisti e praticamente tutti gli africani sostengono che sono quei confini la causa dei pochi scambi commerciali tra un paese e l’altro e delle guerre tribali che a partire dagli anni 60 del XX secolo, con le indipendenze, hanno dilaniato il continente.

Nessuno sembra ricordare che prima dell’era coloniale, e in parte anche dopo, per ogni africano il territorio sicuro, in cui circolare liberamente, era quello controllato dal proprio lignaggio e, nei periodi di pace tra i lignaggi, quello tribale. Per commerciare si viaggiava con grave rischio, in convoglio, armati, cercando di stringere patti di volta in volta con i lignaggi e le tribù di cui si attraversavano i territori.

Il presidente della Commissione dell’UA, Moussa Faki Mahamat, ha definito l’accordo “una sfida gloriosa che richiede coraggio, il coraggio di credere, il coraggio di osare, il coraggio di inseguire la meta!”. Il presidente del Rwanda, Paul Kagame, ha detto che “la pietra miliare raggiunta è la prova di che cosa si può fare quando gli stati africani lavorano insieme”. Sul sito web del CFTA si descrive “l’eccitazione provata nel vedere tutti i paesi dell’UA uniti dalla volontà di favorire il commercio intra-africano”.

Ma la realtà è diversa. Gli stati africani sono 55 e solo 44 hanno firmato l’accordo, 43 hanno firmato la “Dichiarazione di Kigali”, un documento politico a sostegno del CFTA, e 27 il Protocollo della libera circolazione delle persone. Gli 11 stati che non hanno firmato l’accordo sono: Benin, Botswana, Burundi, Eritrea, Guinea Bissau, Lesotho, Namibia, Nigeria, Sierra Leone, Sudafrica e Zambia. Valgono il 37% del Pil continentale. Nigeria e Sudafrica sono le due più forti economie africane. La Nigeria, con circa 180 milioni di abitanti, è il paese più popolato. Inoltre i termini dell’accordo, che potrà entrare in vigore dopo la ratificazione di almeno 22 paesi previa la approvazione dei rispettivi parlamenti, sono tutt’altro che definiti. Nella bozza dell’accordo i paesi si impegnano a rimuovere il 90% delle tariffe doganali, mentre per il 10% di “articoli sensibili” la decisione è rimandata. Però i paesi non hanno ancora neanche deciso quali sono i prodotti da escludere e, siccome il commercio africano è concentrato su pochi prodotti, i paesi potrebbero tentare di escludere quelli più importanti. Insomma, la strada è incerta e forse tutta in salita. Soprattutto, nei decenni trascorsi, tante altre “nuove albe” e “pietre miliari” non hanno portato a nulla, se non a sprecare centinaia di milioni di dollari.

I leader africani sembrano credere che redigere un programma e dargli un nome basti a raggiungere l’obiettivo. Come ben sanno, in effetti è sufficiente a ottenere congratulazioni, rinnovata fiducia e, quel che più conta, finanziamenti da parte della cooperazione internazionale.

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