Un centro di ricerca inglese ha pubblicato, qualche giorno fa, una statistica sulla religiosità dei giovani di una ventina di paesi di area europea.
I risultati, come si può immaginare, sono abbastanza desolanti. Nella grande maggioranza di questi paesi la pratica religiosa è in declino, e aumenta sempre di più la percentuale di coloro che si definiscono non religiosi.
Il definirsi non religiosi è il segno indiscutibile che la società stessa non è più tale. Fino a non molti anni fa persino chi non frequentava nessuna Chiesa aveva difficoltà a definirsi ateo o agnostico, perché rimaneva comunque una diffusa idea che qualcosa pur ci fosse o, banalmente, per conformismo. Ormai anche questa barriera è sparita.
Sembra che la maggioranza delle persone giovani non si domandi più chi è, che cosa fa nel mondo, il senso della vita, o sia convinta che questo senso non ci sia. E’ un fenomeno che aveva già notato alla metà del secolo scorso don Giussani, pur in un momento in cui la presenza cattolica sembrava pervasiva: una diffusa ignoranza di cosa sia il cristianesimo, una incapacità a porsi questioni sul significato della realtà, lo smarrimento delle proprie radici. Fu per questo che decise di insegnare nelle scuole, perché gli sembrava che solo una educazione, solo il riconoscimento di una presenza avrebbe potuto rovesciare quella decadenza di cui allora si captavano solo i primi segni. Mentre oggi è ovvia agli occhi di tutti.
Non voglio addentrarmi nei particolari dei risultati di questo sondaggio, salvo per evidenziare una cosa: che più le chiese di un dato paese hanno ceduto adeguandosi alla mentalità del mondo, “aggiornandosi” per cercare di essere più appetibili, più hanno ottenuto l’effetto opposto: sono diventate insignificanti e alla fine sono sparite.
Non credo di sbagliarmi dicendo che i numeri residui in quei paesi altamente secolarizzati sono dati da coloro che si sono aggrappati alla tradizione, ad una religiosità che i progressisti etichetterebbero come irrimediabilmente fuori moda.
In una intervista, l’estensore della statistica annota che ci vorrà probabilmente un secolo prima che la ricostruzione di un comune sentire cristiano possa avere luogo. C’è chi gli contesta questo, dicendo che di anni ce ne vorranno 500; e chi invece fa notare come sintomi di ripresa siano già presenti. Certo meglio cento anni che la sparizione della fede, la risposta negativa alla domanda che si faceva Cristo: ne avrebbe ancora trovata sulla Terra al suo ritorno?
Da parte mia dico solo che la Chiesa è stata data per morta molte volte, come pure avevano fatto per il suo fondatore. Se la Pasqua ci insegna qualcosa è che mettere Cristo dentro un sepolcro si può, ma la cosa che gli viene meglio è uscirne vittorioso.