Leah Sharibu

Pochi giorni fa sono state liberate le ragazze rapite dal gruppo jihadista di Boko Haram. “Quasi” tutte perché manca all’appello Leah Sharibu, una studentessa tenuta prigioniera per il solo fatto di essere cristiana e di rifiutare la conversione all’Islam. E, come nel caso di Asia Bibi, il silenzio è assordante anche per Leah.

Il 21 marzo scorso sono state liberate quasi tutte le 110 studentesse nigeriane rapite il 19 febbraio da Boko Haram a Dapchi, nello Yobe, uno dei tre stati nordorientali della Nigeria in cui il gruppo jihadista è attivo. A bordo di una dozzina di automezzi i miliziani si erano aperti sparando la strada verso il Collegio governativo femminile di scienza e tecnica e avevano prelevato le ragazze senza che nessuno cercasse di fermarli. Le autorità, inspiegabilmente, hanno ammesso il rapimento e inviato truppe alla ricerca dei sequestratori solo il 22 febbraio, dopo due giorni trascorsi a rassicurare la popolazione dicendo che le studentesse erano fuggite nella boscaglia, spaventate dall’incursione, e si sarebbero presto fatte vive a scuola o a casa, o, in alternativa, che il rapimento in effetti c’era stato, ma che l’esercito aveva già trovato e portato in salvo quasi tutte le ragazze.

In Nigeria la notizia del sequestro è stata accolta con sgomento. Il pensiero è andato alle 276 ragazze rapite a Chibok nel 2014, sposate a forza ai jihadisti, costrette, quelle cristiane, a convertirsi all’Islam, usate come bombe umane per gli attentati messi a segno nei mercati e nelle stazioni di autobus delle città del nord est. A distanza di quattro anni, ancora 100 sono in mano ai loro rapitori, le altre sono state liberate solo nell’ultimo anno dopo interminabili trattative.

Invece il resto del mondo, che si era mobilitato per le ragazze di Chibok elettrizzando i terroristi per la eco planetaria della loro impresa (persino il presidente degli Usa, il premier britannico e il Papa avevano aderito alla campagna via twitter BringBackOurGirls), questa volta ha quasi ignorato l’accaduto. I tentativi di trattare con i terroristi la liberazione delle studentesse di Dapchi forse sono stati facilitati proprio dal disinteresse dei personaggi dello spettacolo e dei grandi protagonisti della vita politica e sociale mondiale. Sta di fatto che, dopo poco più di un mese di prigionia, 104 studentesse sono state portate dai jihadisti nei pressi di un villaggio non lontano dal loro collegio e liberate. Mancano però all’appello sei ragazze, cinque delle quali decedute – dicono le compagne sopravvissute – durante il trasporto, schiacciate dalle compagne sugli automezzi sovraccarichi, oppure uccise dall’angoscia e dallo sfinimento nei giorni di prigionia.

Alcune ragazze sostengono di essersi salvate per il fatto di essere musulmane. “Non so perché ci hanno riportate indietro – ha raccontato all’agenzia Reuters una di loro – ci hanno detto che lo avrebbero fatto perché noi siamo figlie di musulmani”. Non risulta al momento confermata la notizia, riportata da alcuni quotidiani, secondo cui i miliziani in effetti avrebbero fatto sapere di essere dispiaciuti di aver sequestrato proprio quelle studentesse credendole cristiane e che “se avessero saputo che erano praticamente tutte musulmane non le avrebbero rapite”. A dirlo ai giornalisti sarebbe stato un vigilante locale aggiungendo che i rapitori parlavano Kanuri, la lingua di molte popolazioni che vivono sulle rive del lago Ciad, e indossavano turbanti neri.

Sempre secondo le compagne liberate, un’altra ragazzina è viva ed è ancora in mano ai jihadisti. La tengono prigioniera, hanno spiegato, perché è cristiana e ha rifiutato di abiurare e convertirsi all’Islam come i jihadisti pretendevano che facesse. Intervistato nei giorni successivi al rilascio, il padre della ragazzina si è detto fiero del coraggio con cui sua figlia tiene testa ai miliziani e molto felice che abbia rifiutato di abbracciare la fede islamica. Sperando che il suo messaggio le pervenga, l’ha esortata a essere forte nonostante quel che le toccherà patire e le ha promesso che se verrà liberata la farà tornare a scuola, sfidando Boko Haram che ha minacciato di rapire chiunque osi tornare a frequentare il collegio di Dapchi.

La giovane nigeriana – non si sa quanti anni abbia, ma l’età delle ragazze rapite va da 11 a 19 anni – si aggiunge alla schiera dei cristiani perseguitati per la fede che non accettano di convertirsi all’Islam, disposti ad affrontare le conseguenze anche estreme del loro rifiuto; con lei, la sua famiglia che la incoraggia. Il caso forse più noto è quello di Asia Bibi, condannata a morte in Pakistan per blasfemia, in carcere dal 2009, e che oggi sarebbe libera se avesse accettato la proposta di abiurare formulatale da un giudice, il primo che ha esaminato il suo caso e l’ha condannata: “Io l’ho ringraziato di cuore per la sua proposta – racconta Asia Bibi – ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana. Sono stata condannata perché cristiana – gli ho detto – credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui”.

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