Che cos’è l’omosessualità?
Sulla definizione di omosessualità c’è una netta divisione fra due correnti di pensiero alternative: la prima, che potremmo definire “normalizzatrice”, ritiene l’omosessualità una variante normale, anche se minoritaria, del comportamento sessuale umano; la seconda, che si definisce “riparatrice”, considera i comportamenti omosessuali come un tentativo del soggetto di riparare a una carenza affettiva del passato.
Nell’ambito della corrente normalizzatrice, una definizione di omosessualità che tiene conto degli aspetti antropologici è quella data da Vidal: ‹‹Per omosessualità si intende la condizione umana di una persona che, a livello di sessualità, è caratterizzata dalla peculiarità di sentirsi ontologicamente condizionata a esprimersi sessualmente con partner dello stesso sesso››. Da cui consegue che “l’omosessualità non è soltanto un fenomeno personale, ma la situazione antropologica di un essere personale”. A questo tipo di posizione si oppone Nicolosi, uno dei principali sostenitori della concezione “riparatrice”, sostenendo che la normalizzazione omosessuale è stata una scelta dovuta a ragioni politiche e non scientifiche. D’altra parte, la difficoltà di sostenere la perfetta equivalenza tra eterosessualità e omosessualità esiste anche per i più accesi “normalizzatori”. Un aneddoto aiuta a capire. Al presidente Spitzer del comitato della nomenclatura del DSM – l’organo scientifico che ha cancellato l’omosessualità dall’elenco delle malattie psichiatriche (vedi §2, Storia) – Nicolosi chiese: “E’ mai successo nella storia della psichiatria che un eterosessuale sia entrato in cura per l’angoscia di essere tale, desiderando di essere omosessuale?”. A cui Spitzer non poté che replicare: “Come ben immagina la risposta è no”.
Che la posizione normalizzatrice sia stata decisamente orientata da una scelta culturale, lo dimostra il fatto che il dibattito sulla natura dell’omosessualità nell’individuo si è praticamente arrestato, da un certo momento in poi: i ricercatori hanno smesso di domandarsi se l’omosessualità sia un problema, perché anche la sola domanda era divenuta una discriminazione inaccettabile del gruppo prevalente eterosessuale verso la minoranza omosessuale. La stessa discussione sulla genesi dell’omosessualità è stata molto ridimensionata: per chi giudica l’omosessualità una delle possibili varianti normali del comportamento sessuale umano, la discussione sulle sue cause è ritenuta di per sé stessa pregiudizialmente negativa: infatti, si replica, non ci si interroga ad esempio sulle cause dell’eterosessualità.
A questo deciso cambio di rotta contribuirono anche motivi umanitari e di utilità sociale: la psichiatria contava di essere un buono strumento per evitare discriminazioni sociali ai danni delle persone omosessuali, cancellando il marchio di malattia attribuito ad esse; inoltre, esisteva una certa difficoltà nel suggerire terapie efficaci per affrontare la questione.
Ragioni, queste ultime, che non sono sufficienti però per rispondere in modo oggettivo alla domanda sull’essenza dell’omosessualità, ma che anzi rischiano di essere dei fattori di disturbo, in quanto orientano l’indagine filosofica alla risposta ‘più utile’ nel momento storico e non alla verità.

Aspetti psicologici
Gli studi psicologici hanno evidenziato una costante nella formazione della psiche del soggetto omosessuale, quella che Nicolosi chiama la “relazione triadica” costituita ‹‹da un padre distante, distaccato e critico, da una madre iper-coinvolta, intrusiva e talvolta dominante e da un ragazzo costituzionalmente sensibile, introspettivo e raffinato che è esposto ad un rischio maggiore di sentirsi carente nell’identità sessuale››.
Tale schema è riconosciuto in buona sostanza anche da chi sostiene la tesi normalizzatrice.
Isay, ad esempio, considera l’omosessualità costituzionale come l’eterosessualità e ‹‹l’espressione della propria sessualità da parte dei gay un fattore normale e utile alla loro maturazione››. Questo non gli impedisce di riconoscere che ‹‹la maggior parte dei gay che viene in cura racconta, a differenza degli eterosessuali, che durante l’infanzia i padri sono stati emotivamente così distanti da non permettere alcuna forma di attaccamento››.
Ovviamente, a differenza di Nicolosi, questo fenomeno non è sufficiente ad Isay per attribuire la nascita dell’omosessualità a questi squilibri familiari. Questi, infatti, inverte il rapporto causa-effetto e vede al contrario la distanza dal padre come il risultato di una forma di auto-difesa del piccolo gay, per evitare di riconoscere un precoce attaccamento erotico al padre.
Analogamente, di fronte alla domanda sul perché non si danno praticamente casi di omosessuali con padri amorosi, autorevoli e accoglienti, Isay risponde ancora una volta ribaltando la questione e attribuendo la responsabilità di tutto alla società: ‹‹Se i padri dei ragazzi omosessuali li avessero accettati e amati sin da bambini, questi avrebbero un modello da imitare nell’amare e prendersi cura di altri uomini, un modello che invece nella nostra società non è stato mai presente. Quei padri che crescono i loro figli condividendone lo sviluppo omosessuale (…) li aiuteranno anche ad essere capaci, da gay adulti, di costituire delle relazioni durature, basate sull’amore e sull’affetto e sessualmente gratificanti››.
Dall’altra parte, nella concezione “riparatrice” di Nicolosi non si misconosce la possibilità di una predisposizione costituzionale all’omosessualità, ma questa è considerata cosa diversa da una pre-determinazione, o da una causa diretta.
In quest’ottica, il ragazzo può essere costituzionalmente incline all’omosessualità, per una sua personalità passiva o delicata, e per una sua difficoltà nel creare un legame con il padre e con il mondo maschile, ma è necessaria la classica ‘relazione triadica’ ambientale per creare in lui un problema omosessuale.

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