L’uomo contemporaneo, erede della tradizione illuministica che invitava a esercitarsi al tiro al bersaglio contro i pregiudizi, abbraccia quasi per definizione lo spirito critico. Bisogna diffidare, ci viene detto da allora, di tutto ciò che è frutto di una tradizione, cioè di tutto quel che si presenta come l’anello finale di una trasmissione, di una consegna (il latino tradere vuol dire consegnare, trasmettere, tramandare) che non abbiamo scelto in piena autonomia. Nessuno può azzardarsi a pre-giudicare, giudicando per e prima di noi.
Di conseguenza la critica sociale è diventata un must-have. Il metodo della demistificazione si è imposto un po’ ovunque radicandosi nel costume e nella mentalità. Il suo esito, ha evidenziato Rodolfo Quadrelli, è un diffuso cinismo «che consiste nel ritenere il mondo retto da meri rapporti di forza» (1).
Possiamo verificare questa invasione dello spirito critico a partire dalla forma più volgare, nazionalpopolare della demistificazione che è, sempre secondo Quadrelli, «l’automatica prontezza dell’uomo qualunque convinto di essere furbo quando riduce qualsiasi progetto o affermazione a questione di interessi» (2).
Se ci pensiamo, la sacralizzazione dello spirito critico appare perfettamente logica. Una logica rintracciabile nella carne stessa della parola: il greco krísis, da cui «critica», tra le altre cose significa sia che «scelta» che «giudizio». Per poter scegliere devo prima poter giudicare l’oggetto della mia scelta.
Ma qualcosa non torna perché questa voglia di criticare tutto e tutti sembra avere dei limiti ben precisi e alcune scelte sembrano essere piuttosto obbligate e, dunque, si rivelano piuttosto delle non-scelte.
C’è infatti una critica ammessa e una critica proibita, come ha notato con acume Joseph Ratzinger in una densissima lezione del 1988 tenuta all’Università di Eichstatt e riproposta a Cambridge.
È vero, ci dice Ratzinger: i maestri del sospetto hanno fatto scuola e lo spirito del tempo impone di avere uno sguardo universalmente critico: «Ciò che è grande e nobile, è sospetto in partenza, va strappato dal piedistallo e scrutato a dovere. Morale equivale a ipocrisia, felicità ad autoinganno. Chi si fida con semplicità del Bello e del Buono, o pecca d’imperdonabile semplicioneria o persegue intenti malvagi. L’atteggiamento morale autentico è il sospetto, il colmo dei suoi successi è lo smascheramento. La critica della società è un dovere; i pericoli che li minacciano, non li si prospetterà mai a tinte abbastanza vivaci e crude» (3).
C’è però un fatto curioso: che «questa voglia di negativo non è illimitata» e tanto meno universale, visto che «le è simultaneo un dovere di ottimismo, a cui non si può contravvenire restando impuniti» (4).
Come sappiamo ci sono “conquiste” che non è lecito criticare. Guai ad esempio – almeno fino a ieri – a chi volesse insinuare qualche dubbio sul disordinato libertinismo sessuale che conferisce capacità di diffusione ai virus (come l’Aids). O ancora: come si può combattere l’aborto? E che dire di chi si azzarda a osteggiare il “matrimonio egualitario”?
Provare per credere.
Chi esprimesse simili opinioni, prosegue Ratzinger, «avrebbe evidentemente scelto il tipo di critica sbagliato» e «si troverebbe improvvisamente dinanzi a una decisa apologia delle scelte moderne fondamentali» (5).
C’è quindi un dogma fondamentale al di là di ogni gusto per la negazione, esentato da ogni critica: l’idea «che la linea maestra del divenire storico sia progresso e che quindi il bene sia riposto nell’avvenire e in nessunissimo altrove» (6).
Qualcuno ha provato a dare anche un nome a questa nuova – e intollerante – religione ideologica: Rémi Brague l’ha battezzata «umanismo» (7). Che nulla possa né debba ostacolare la marcia inarrestabile del progresso umano è il suo dogma supremo.
L’umanismo è qualcosa di ben diverso dall’umanesimo classico, avverte Brague. È lo spirito che li anima a differenziarli. L’umanesimo classico è animato dall’amore per l’uomo; l’umanismo è animato dall’amor proprio dell’uomo.
L’uomo che si eleva a misura di tutte le cose. Jacques Maritain lo direbbe un umanesimo antropocentrico, Henri De Lubac un umanesimo ateo, Michele Federico Sciacca occidentalismo. Tutte queste espressioni indicano lo stesso fenomeno: il tentativo di creare un mondo fondato sulla considerazione unica ed esclusiva dell’uomo e l’oblio di Dio.
L’umanismo contemporaneo cominciava a nascere dal momento in cui si smarriva la percezione di vivere in un cosmo, cioè in un mondo regolato da un ordine. È il kosmos di cui parlavano i Greci: un ordine che unisce bellezza e armonia (il senso estetico del kosmos si percepisce ancora in lontananza, come in un’eco, in termini moderni come «cosmetico»). Cosmo che, in un’ottica cristiana, non è una privata proprietà dell’uomo ma il dono di un Creatore benevolo e provvidente. Un dono da custodire con amore, non un fondo da sfruttare con avidità.
Ma da quando la krisis ha cominciato a scalzare il kosmos per l’uomo non si è si è più trattato di ricercare, per mezzo dell’intelligenza, il proprio posto nel cosmo, cioè all’interno di un ordine anteriore alla volontà umana. Avere una parte, anche fosse la migliore, è troppo poco per chi vuole essere l’unico interprete.
Si consuma così una rivoluzione epocale, poiché, come spiega Olivier Rey, «in seno a un cosmo, l’uomo doveva far uso del suo intelletto per svolgervi armoniosamente la sua parte; in un universo moralmente neutro, nessun posto è assegnato e la volontà può dispiegarsi senza freni; non si tratta più di inserirsi nel mondo, ma di esprimervisi e pianificarlo a proprio piacimento. Da oggettiva, la ragione diventa soggettiva: il suo esercizio non consiste più nell’accordare l’uomo al cosmo, ma nel penetrare le regole di funzionamento della natura per poi organizzare al meglio i mezzi in vista di fini decisi al di fuori di essa» (8).
L’umanismo accoglie il principio che il filosofo del diritto Pietro Barcellona ha chiamato di «piena disponibilità dell’origine». L’uomo, che non si accontenta più di essere creatura, vuole manipolare la propria origine al fine di essere il creatore di se stesso. Il mondo umanista è una civiltà dell’autosufficienza che aspira a organizzare il proprio mondo contando unicamente sulla propria potenza politico-economica-tecnoscientifica.
C’è dunque un singolare dissidio, un’intima contraddizione all’interno dell’odierna critica sociale che prescrive tanto un dovere di cinismo quanto un dovere di ottimismo. Due doveri che a ben vedere si rinforzano a vicenda: l’ottimismo obbligatorio impone di arrestarsi sulla soglia delle scelte di fondo (dettate dalla tavola di valori dell’umanismo), quelle che non è consentito mettere in questione; il cinismo obbligatorio stronca sul nascere, aggredendolo violentemente, ogni ordine di valori alternativo a quello dell’umanismo.
(1) Rodolfo Quadrelli, Il senso del presente, Rusconi, Milano 1976, p. 16.
(2) Ivi, p. 19.
(3) Joseph Ratzinger, Il tramonto dell’uomo. La scommessa della fede, Carroccio, Padova 1988, p. 7.
(4) Ibidem.
(5) Ivi, pp. 7-8. Anni più tardi, lo stesso Ratzinger avrebbe fatto esperienza, da papa, di una simile intolleranza quando affermò, mentre volava verso l’Africa, che la diffusione dell’Aids nel continente nero non si sarebbe potuta fermare solo col denaro o con la distribuzione di preservativi (ossia con l’economia e con la tecnica). Per contro, papa Benedetto proponeva due soluzioni: una «umanizzazione della sessualità», cioè unire all’istinto anche fedeltà e responsabilità verso il partner; 2) una «vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti», cioè solidarietà, cura del prossimo, spirito di sacrificio e di dedizione. Un esempio da manuale di critica “proibita”.
(6) Ivi, p. 8.
(7) Cfr. Rémi Brague, Elisa Grimi, Contro il cristianismo e l’umanismo. Il perdono dell’Occidente, Cantagalli, Siena 2015.
(8) Olivier Rey, Dismisura, Controcorrente, Napoli 2016, p. 100.