Lecito chiedersi “dove va la Chiesa”. Ma certamente più decisivo per i cattolici è sapere dove essa “non deve andare”: né verso la “divisione” né, peggio ancora, verso quella “rivoluzione” che sarebbe il tradimento della verità che Cristo ha affidato in modo particolare a Pietro (e ai suoi successori) per tutti gli uomini.
Dove sta andando la Chiesa cattolica? Se lo chiedono in molti ultimamente e, come accade dai tempi dei partiti di Paolo e Apollo a Corinto, la domanda tende a polarizzare il corpo ecclesiale in fazioni litigiose. Oggetto della contesa sono le “aperture” di Francesco, eroico rivoluzionario per i “progressisti”, pericoloso novatore per i “tradizionalisti”. Alcuni, come il sociologo e collaboratore del Fatto Quotidiano Marco Marzano parlano di una «spiritualità flessibile» a supporto della «politica dell’amicizia» di papa Bergoglio, la quale esige una dottrina lasca, dagli ampi margini interpretativi, per poter includere il più ampio numero di persone sotto la sacra volta cattolica. Ci convince di più Carl Schmitt col suo breve saggio del 1923, Cattolicesimo romano e forma politica, che si apriva sulla definizione della Chiesa come complexio oppositorum: «Pare non possano darsi opposizioni che essa non riesca ad abbracciare».
La Chiesa è quell’istituzione che, unica nella storia dell’umanità, riesce a riunire in sé ogni forma di stato e di governo, essendo una monarchia aristocratica il cui vertice viene eletto dall’aristocrazia cardinalizia ma, al tempo stesso, tanto democratica da permettere a chiunque, fosse anche l’ultimo pastore di un paesino abruzzese, di diventare quel sovrano autocratico. Siamo davanti a qualcosa di più del semplice opportunismo senza limiti, faceva osservare Schmitt. La Chiesa è l’unica erede dell’universalismo politico dell’impero romano. E ogni impero universale sa accogliere al proprio interno una variegata moltitudine di punti di vista, tollerando con pazienza i particolarismi quando non vanno a minacciare valori essenziali, centrali, della propria esistenza. Pertanto ogni impero «che sia più di un semplice schiamazzo» accoglie in sé gli opposti: progresso e tradizione, innovazione e conservazione. Anche nella sua dottrina la Chiesa accoglie un sano progresso purché rispettoso della tradizione. Non un progresso come rottura ma un progresso come lenta sedimentazione: riforma ma nella continuità, mutazione soltanto nell’inessenziale, non rivoluzione o rottura radicale col passato.
L’impressione, e la lettura del libro di Marzano (La Chiesa immobile: Francesco e la rivoluzione mancata, Laterza, marzo 2018) ce lo conferma, è che la nomea di “rivoluzionario” addossata a Francesco sia ampiamente esagerata come testimonia, tra le altre cose, la sua biografia da prete, vescovo e cardinale. Come ha ricordato Massimo Introvigne sul suo profilo social, il libro di Marzano è interessante perché, partendo da una posizione critica della Chiesa “da sinistra”, arriva a sostenere che Francesco è un conservatore in linea con la tradizione della Chiesa e coi papi precedenti, il quale è riuscito, grazie ad una abilissima operazione di maquillage – potremmo dire anche di marketing –, a farsi accreditare come progressista e riformatore, per non dire rivoluzionario, dai mass media. A sostegno della sua tesi Marzano raccoglie, in maniera convincente, una rassegna di citazioni, fatti e argomenti che lasciano poco spazio all’idea che Francesco possa essere un pericoloso sovversivo. La narrazione del pontificato di Francesco come “rivoluzionario” e di “rottura” è paradossalmente alimentata dai due partiti ecclesiali, tradizionalisti e progressisti, ovviamente con giudizi di valore del tutto opposti. Insomma, non ci saranno rivoluzioni nella Chiesa, e certo non partiranno dal suo vertice istituzionale.
Anche perché lo spostamento dell’asse cattolico dall’Europa verso l’America Latina e l’Africa, a configurare quella che Philip Jenkins ha denominato la «Terza Chiesa», inaugura scenari opposti a quelli vagheggiati dai cattolici progressisti. Soprattutto l’Africa può essere considerata una roccaforte del cattolicesimo tradizionale: una forte religiosità su base popolare con ampie concessioni al folklore, con una fede che privilegia l’aspetto sensibile in luogo della speculazione intellettuale, dalle posizioni tutt’altro che “progressiste” sui temi della bioetica e del matrimonio omosessuale. Del resto le confessioni cristiane che hanno operato scelte simili alle “aperture” invocate dai riformatori hanno prodotto risultati ben poco confortanti: non ultimo l’abbandono di massa della pratica religiosa col conseguente rischio di estinzione. Se c’è una tentazione a cui i cattolici africani e latinoamericani sono soggetti non è certo quella del Vangelo progressista quanto quella di rincorrere i fondamentalisti evangelici sul terreno dell’emotivismo e dell’irrazionalismo.
Non vogliamo inserirci nella disputa tra i laudatores e i contemptores di papa Bergoglio, addentrandoci in schermaglie che ci ricordano tanto gli scontri interni a un consiglio di amministrazione impegnato a valutare i risultati dei bilanci e a stabilire le strategie per un futuro di successo dell’azienda. Tanto meno vogliamo giudicare il Papa, ingiudicabile da ogni autorità umana, che porta al tempo stesso la nostra e la sua fragile umanità al cospetto dell’Onnipotente. Responsabilità grande e terribile, onere e onore del Vicario di Cristo. Mai vorremmo fare alcunché che potesse aggravare questo peso e attentare all’unità della Chiesa. Già in troppi lavorano, che lo sappiano o meno, a questo scopo.
Non dimentichiamo infine che le sorti della Chiesa non sono, ultimamente, nelle nostre mani. A questo proposito ci sovvengono le sagge parole di Joseph Ratzinger nell’intervista Il sale della terra (1997) che oggi come ieri ci ricordano quanto, in ultima istanza, possano essere misteriose le vie di Dio: «Non ho mai preteso di riuscire a imporre un’altra direzione al timone della storia. E se lo stesso Nostro Signore finisce sulla croce, allora si vede che le sue strade non portano così rapidamente a dei risultati misurabili. Credo che questo sia davvero molto importante. I discepoli gli hanno posto domande del genere: ma che cosa sta succedendo? Perché non si vede nessun risultato? Ed egli ha risposto con le parabole del seme di senape, del lievito e molte altre ancora, e ha spiegato loro che la statistica non è uno dei criteri di Dio. Tuttavia con i semi di senape e con il lievito accade davvero qualcosa di sostanziale e decisivo, che voi adesso non potete vedere. Per questo, mi pare, non bisogna tener conto dei criteri quantitativi di successo. Non siamo un’impresa commerciale, che può avere come unità di misura le cifre e dire: la nostra politica ha avuto dei buoni esiti e le vendite sono cresciute. Noi svolgiamo un servizio, che ultimamente non è nelle nostre mani, ma in quelle di Dio».