In questi giorni divampa la polemica – unita all’indignazione – per la feroce uccisione del giovane Willy Monteiro, ammazzato al termine di un brutale pestaggio. A scuotere l’opinione pubblica sono state le modalità particolarmente vigliacche dell’omicidio: una violenza di gruppo, una specie di caccia all’uomo collettiva ai danni di una “preda” nettamente più debole dei “cacciatori” sul piano fisico – che però, dando prova di coraggio, aveva osato sfidarne la supremazia attirandosi così la loro vendetta. Tra le tante immagini rilanciate sul web, una attira la mia attenzione. È quella che ritrae due dei principali accusati del “branco” che ha assassinato Willy mentre sono seduti in sella alle loro moto da corsa.
«Ecco», ho pensato ad alta voce mentre osservavo quelle immagini che ostentavano spavalderia, «due moderni centauri». Certo, la differenza salta subito agli occhi: i centauri del mito per metà (dal bacino in giù) partecipavano alla natura di un cavallo, non se andavano in giro sull’artificio di due ruote high-tech. Ma al di là di queste ovvie differenze, il mito del centauro – che come ogni mito è portatore di un archetipo, di una verità universale che parla a tutti gli uomini di tutti i tempi – può dirci molto sul seme della violenza che in questo momento di stress-test sociale (a causa del Covid-19) sembra diffondersi ovunque nel mondo.
IL CENTAURO, L’UOMO-ANIMALE VIOLENTO, NON FORTE
Ma chi è il centauro? Quali sono le sue peculiarità? Il mito greco narra le origini del primo centauro, concepito – ricorda Pindaro – senza cháris, vale a dire senza la grazia (è questo il significato del greco cháris) femminile e all’infuori di un rapporto d’amore. Il primo centauro nasce infatti dalla hybris erotica dell’empio Issione, già promesso sposo della bellissima Dia. Le nozze però non avranno mai luogo dato che Issione provvede ad assassinare – per una meschina questione economica – il futuro suocero. Un crimine orribile e imperdonabile il suo. Ma non per Zeus, che non solo ha pietà di lui: arriva perfino a purificarlo e a concedergli l’immortalità e la possibilità di vivere con gli dèi. Ma Issione, oltre che violento, è ingrato: non esita a insidiare Era, la sposa di Zeus. Il capo degli dèi decide allora di metterlo alla prova e plasma una nuvola a immagine di Era per osservare le reazioni di colui che aveva beneficiato. Inutile dire che Issione, accecato dalla bramosia, le usa violenza. È da questa sacrilega unione che nasce l’essere chiamato Centauro, creatura semi-antropomorfa dal busto umano innestato su un corpo equino.
La ricerca di un’intimità senza amore, il desiderio di un’unione senza dono: in questo sta la hybris di Issione. Un piacere privato, egoistico e senza mutualità contraddice l’essenza della cháris, intimamente legata, come afferma Aristotele, allo spirito del dono. Ciò trova conferma nel fatto che Issione concepisca con una nuvola, ossia con un simulacro privo di identità e di sentimenti, chiaro simbolo dell’impossibilità di stabilire una autentica relazione amorosa senza una benevolenza reciproca – negata in radice dalla violenza, azione asimmetrica per definizione.
Il centauro è dunque il maschio senza legge: un essere istintuale e animalesco incapace di controllarsi, schiavo delle pulsioni più disparate, simbolo della polarità primitiva che alberga nell’uomo. E soprattutto un essere violento: incapace di distinguere l’istinto aggressivo della caccia dalla passione dell’amore, in lui la pulsione sessuale si struttura inesorabilmente attorno a meccanismi elementari di attacco e difesa, dominazione e soggezione, violenza e paura (la sessualità del centauro è per definizione predatoria).
Come aveva capito Atnold Gehlen, nell’essere umano, in specie nel sesso maschile, sussiste il pericolo di reistintivizzarsi, di regredire allo stadio di maschio animale e precivile dedito alla “caccia” collettiva della preda. Il maschio competitivo e istintuale cova, sempre in agguato sotto le conquiste della civiltà, pronto a riapparire. Sembra superato. Invece è a malapena represso.
L’UNICO ANTIDOTO AL CENTAURO E’ LA FIGURA DEL PADRE
Qual è il katèchon, la forza a un tempo inibitrice e civilizzatrice che tiene a bada il maschio animale? È la figura del padre, una conquista recente (almeno per i lunghi tempi della storia) sorta dal controllo degli istinti. Il padre vuol dire disciplina, autocontrollo, organizzazione, prudenza, previdenza, progettualità, giustizia, pensiero astratto.
Tra il padre civile e il maschio animale intercorre la stessa differenza che si stabilisce tra i due universi morali della forza e della violenza. Le virtù paterne si chiamano forza, diritto, ordine, equilibrio, senso della misura e del limite. Che circoscrivono un perimetro alternativo ai vizi del maschio animalesco: la violenza, l’arbitrio, il disordine, la sfrenatezza, la dismisura…. All’opposto del centauro, il padre è il maschio ingentilito: con la sua capacità di unire, attraverso il controllo di sé, la forza e la cháris, la disciplina paterna è una preparazione alla donazione di sé.
Quella paterna è un’autorità liberante: affranca dalla tirannia del pulsionale. In questo è l’esatto opposto dell’autoritarismo illiberale e totalitario. «Se quest’ultimo», fa osservare la psicologa Laura Pigozzi, «uccide la soggettività, l’autorità le offre la linfa del legame col collettivo. Essa poggia sull’etimologia della parola “autorità”, che deriva da auctor, a sua volta riconducibile ad augere, che significa “accrescere”, “aumentare” e “rafforzarsi”».
Il padre è colui che dice «no» con autorevolezza e così facendo stabilisce un limite alle pulsioni disordinate. Quell’indispensabile «no» che permette la crescita. In sintesi, le virtù di contenimento del padre si confondono con quelle della civiltà stessa. Ma il padre, come la civiltà, è una figura complessa, tutta da costruire attraverso una lenta e paziente opera di edificazione morale, psicologica, culturale. Ciò significa che le circostanze storiche possono favorire o sfavorire il padre e propiziare, all’opposto, una regressione al maschio animale sempre in agguato sotto la tenue crosta della civiltà.
E oggi, come confermano pressoché tutti gli analisti di un certo spessore, è perfino troppo poco parlare di “crisi” del padre. Si è più vicini al vero a parlare di “evaporazione” della figura paterna. «Per millenni», scrive ad esempio lo psicanalista Luigi Zoja nel suo Centauri, «i valori ebraico-cristiani e i principi patriarcali gli hanno dato [al padre] conferma e stabilità. Ma nel mondo postmoderno, con lo sgretolarsi della famiglia e dei suoi valori tradizionali, l’equilibrio si altera».
Il movimento appare chiaro: con l’abbandono del Padre celeste anche il padre terreno si fa sempre più evanescente. A partire dalla seconda metà del XX secolo i nuovi ideali sociali, tipici di un mondo ad alto tasso di industrializzazione, valorizzano la competitività sia nel campo della produzione che in quello del consumo. Rischiando così di trasformare la società in una specie di guerra di tutti contro tutti, ideale brodo di coltura del maschio aggressivo e competitivo: il centauro
LA PARADOSSALE MODERNITA’ DEL MEDIOEVO
Alle virtù del padre (disciplina, previdenza e prudenza) si sostituisce il culto del successo immediato, gemello siamese di quel culto della tecnologia che promette di mettere tutto alla portata di un click: “tutto e subito” è il motto di questa religione della performance. Questi due aspetti si fondono nel modello che Bauman ha definito della «forma fisica». È un ideale della dismisura. Non si sarà mai abbastanza in forma: la forma fisica perfetta è un ideale futuro dall’orizzonte indistinto, irraggiungibile, soggettivo e incomparabile con esperienze “altre”, che fa dell’uomo un “cercatore di sensazioni”. Sembra il vertice del progresso. Ma in realtà, osserva ancora Zoja, «il nuovo ideale psicologico è molto antico: comporta un ritorno alla condizione più arcaica della caccia e della competizione maschile».
Eppure i centauri del XXI secolo sembrano usciti dalle fantasie futuriste di un Marinetti: sfrecciano a tutta velocità su moto ipertecnologiche. Ma la tecnologia, in questo caso, non fa altro che intensificare e rinforzare la schiavitù del pulsionale. Produce una barbarie tecnicizzata: selvaggi col telefonino, centauri col motorino. Crea nuove dipendenze, non è il superamento di tutte le dipendenze – l’ideale della primitiva fede nel progresso, come ricorda papa Benedetto nella Spe salvi (n. 18). Sempre papa Benedetto avverte che «se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo». (Spe salvi, n. 22)
Quanto sembrano più civili e progrediti (e anche più moderni, se ha ragione René Girard a sostenere che il valore più essenziale della modernità è la simpatia per la vittima), sotto questo punto di vista, gli ideali di quel Medio Evo che aveva saputo trasformare i centauri in cavalieri capaci di mettere la loro forza al servizio dei deboli!
Come la natura, anche la società sembra aborrire il vuoto: lo spazio lasciato dall’evaporazione del padre sta riportando alla luce figure inquietanti che pensavamo confinate per sempre tra le pieghe del mito. Non è così: il seme della violenza cresce quando cade l’ombra sulla legge di giustizia del padre.