La crudele fine di Alfie (e di Charlie e di Isaiah) è il segno di un regresso mondiale: gli ospedali, in un mondo non più cristiano, perdono il loro senso originario di carità verso il debole e diventano luoghi in cui si celebra la forza fisica e il benessere.
Che l’ospedale rappresenti un luogo di accoglienza, cura e accompagnamento del malato è una convinzione talmente radicata nel senso comune da averci fatto credere che questi valori e questi atteggiamenti facessero semplicemente parte della natura umana. Come una sorta di grado minimo di civiltà, quel quid che provvede a marcare la distanza tra la società umana e l’orda animalesca.
Se lo abbiamo creduto, ebbene, dobbiamo confessare di esserci sbagliati. Quanto è accaduto al piccolo Alfie Evans ci ha brutalmente ricordato il vero stato delle cose, ossia che l’ospedale non nasce per gemmazione spontanea. Non è il prodotto di una naturale evoluzione delle cose. È piuttosto il risultato nient’affatto “naturale” di una cultura che riconosce a ogni essere umano una dignità inestimabile. Sì, perché l’ospedale come lo abbiamo conosciuto fino ad adesso, un luogo di ricovero e cura aperto a tutti i malati di tutte le classi sociali, soprattutto le più povere, nasce con l’avvento del cristianesimo. Come ha scritto lo storico della medicina Giorgio Cosmacini, col cristianesimo «da un lato si affermava il concetto che il malato era un tutto unico, corpo e anima; dall’altro si affermava il valore dell’accoglienza, dell’assistenza, dell’ospitalità».
Nel mondo antico la presenza ospedaliera, già molto sporadica, andava soggetta a limitazioni ben precise. Lo stesso vale per l’ospitalità, il cui valore era noto solo marginalmente. Il tempio d Esculapio a Pergamo, per esempio, accoglieva i malati solo dietro remunerazione. E Platone reputava degni di cura solo i cittadini liberi e quanti avessero avuto sicure possibilità di guarigione.
Con la nuova fede cristiana si assiste a un deciso “cambio di paradigma”. La nuova mentalità nei confronti del malato si rende evidente già nei primi secoli del cristianesimo grazie al coinvolgimento di molte donne, spesso vedove, che si dedicano al servizio dei malati. Una prima forma di assistenza organizzata sorge verso la fine del quarto secolo, quando una ricca vedova romana di nome Marcella trasforma la sua lussuosa dimora in un convento per monache-infermiere. Nel 390 invece la bella Fabiola, dopo due matrimoni infelici, si converte al cristianesimo e decide di dedicare il resto della sua esistenza al servizio dei poveri e degli ammalati fondando un ospedale.
I primi ospedali nascono così: dal basso, cioè dall’iniziativa privata di ricche matrone o di vescovi, sacerdoti o religiosi che creano «case ospitali urbane». Come san Basilio, fondatore del primo e più grande ospedale orientale, che diede vita a una cittadella della carità capace di fungere al tempo stesso da ospedale, locanda, lebbrosario, scuola di avviamento professionale, orfanotrofio. Senza contare la tradizione dell’ospitalità monastica portata avanti in Occidente da san Benedetto da Norcia e da Cassiodoro.
Ma un conto è l’ospedale in un mondo cristiano, un altro è l’ospedale in un mondo post-cristiano. È precisamente la condizione della Gran Bretagna, dove la secolarizzazione ha radici antiche. La crisi comincia già all’inizio del secolo scorso con un impatto talmente profondo da spingere qualcuno a definire il Regno Unito un «paese post-cristiano» nel quale i cristiani non sono più che una minoranza tra le altre. I dati statistici sono eloquenti e testimoniano un autentico collasso. In Gran Bretagna l’indice di appartenenza alla Chiesa è diminuito del 64% dal 1900 al 2010; i praticanti settimanali sono crollati dal 57% del 1851 al 10% del 2012; due terzi dei britannici non hanno nemmeno mai messo piede in una chiesa. I pochi frequentanti, soprattutto donne e anziani, abitano in larga maggioranza nelle periferie rurali.
L’analfabetismo religioso dilaga e va di pari passo con l’allontanamento dalle chiese: in un questionario del 2014 su temi di carattere religioso più della metà dei mille bambini intervistati (nella fascia compresa tra i 5 e i 12 anni di età) ha risposto che a Natale si festeggia la nascita di Babbo Natale e non la nascita di Gesù. In maniera analoga ha risposto il 12% dei londinesi adulti, mentre un’alta percentuale di giovani tra i 18 e i 34 anni ha dichiarato che l’albero di Natale si trova nelle pagine della Bibbia.
Le chiese non soltanto si svuotano ma anche la loro reputazione è ai minimi storici, sconfitte come sono state in tutte le grandi battaglie politico-civili dell’ultimo secolo: liberalizzazione del commercio domenicale, vendita di alcolici, divorzio, aborto, unioni civili, matrimonio gay. In più la Chiesa cattolica ha dovuto scontare il peso degli scandali per i casi di pedofilia.
Dove si spegne la luce di Cristo anche le opere ispirate dalla fede cristiana presto o tardi finiscono per esaurirsi. E tornano ad affacciarsi quei mostri infernali a cui gli Antichi avevano dato il nome di Kratos e Bia: la forza e la violenza che calpestano impunemente i diritti dei più deboli. A partire dai defectives, come li chiamavano gli eugenisti d’inizio Novecento: i deboli, i poveri, gli infermi. In breve, tutti gli inadatti destinati a perire nella dura lotta darwiniana per la sopravvivenza.
Senza la legge d’amore di Cristo non rimane che la più brutale legge della forza.
Novanta anni fa Gilbert Keith Chesterton, uno dei figli più illustri della Gran Bretagna cristiana nonché fiero oppositore del nascente movimento eugenetico, aveva profetizzato questo momento: «Il fatto è questo: il mondo moderno coi suoi moderni movimenti vive sul capitale cattolico che possiede. Esso usa e abusa delle verità che gli rimangono dell’antico tesoro del Cristianesimo, comprese naturalmente molte verità già note all’antichità pagana ma che nel Cristianesimo si sono solidificate. Non è vero che stia suscitando certi suoi nuovi entusiasmi. La novità è soltanto questione di nomi e di etichette, come nei moderni annunci pubblicitari, e sotto ogni altro aspetto si tratta di novità puramente negativa. Non si ha l’inizio di cose nuove che si possano portare bene avanti nell’avvenire. Al contrario si stanno raccattando vecchie cose che non sarà affatto possibile portare avanti. Poiché sono queste le due caratteristiche degli ideali della morale moderna: primo, che essi sono stati presi a prestito o strappati dalle mani dell’antichità o del Medio Evo; secondo, che in mano ai moderni essi rapidamente avvizziscono».