Così è arrivato tra noi fratello virus, con la sua furia che non guarda in faccia a nessuno. E dall’oggi al domani ha trasformato i paesi di mezzo mondo in una immensa Covid-land. I nostri governanti si preoccupano – forse un poco in ritardo – di fare dell’Italia un “modello” nella lotta al morbo. Un proposito lodevole. Ma così facendo si rischia, temo, di restare sordi alla lezione di fratello virus.

È una lezione dura, la sua, che colpisce al cuore il mondo che abbiamo costruito.

Un libro di qualche anno fa parlava di una società sotto “assedio del presente”: un mondo in cui il bombardamento mediatico trasmette “valori” come l’edonismo, il consumismo, l’irresponsabilità verso il prossimo, l’irreligiosità e al tempo stesso scredita ogni virtù non indirizzata alla ricerca dell’utile.    

Romano Guardini definiva questa condizione con l’espressione «autochiusura del mondo». In questa maniera il grande teologo italo-germanico designava quell’ideale di assolutizzazione del finito affermatosi in epoca moderna in una forma tale da non ammettere, scrive in Mondo e persona, un «oltre» rispetto a se stesso: un mondo «chiuso in se stesso», dal quale non si «esce né per la via verso l’interno, né all’insù, verso l’alto: chiuso su di sé e dentro di sé».

Il mondo si è rinserrato in se stesso, come espressione di una assoluta e radicale immanenza (questa realtà è la sola). Ma è una chiusura solo in verticale, verso l’alto. Sul piano orizzontale, al contrario, il mondo “autochiuso” manifesta una sorprendente apertura, la più ampia possibile: questo mondo si concepisce come uno spazio sempre aperto a nuovi avanzamenti. Il progresso avanza solo per via aggregativo-sommativa, accumulando un numero sempre crescente di “conquiste”, vale a dire di fatti presi nella loro bruta materialità. La nuova parola d’ordine è no limits.

Il trascendente e il limite: ecco i nemici del mondo autochiuso che, di conseguenza, pare sordo all’amara ironia di Flaiano: «Aumentano gli anni e diminuiscono le probabilità di diventare immortali».

Non appare certo un caso che la morte, il limite per eccellenza, l’oraziana ultima linea rerum, sia diventata l’oggetto di un silenzio morboso nelle società progredite.  Come ha scritto Vittorio Messori, «queste nostre culture che si dicono “razionali”, “liberate”, “adulte” hanno fatto cadere (e non senza buone ragioni) il tabù che aveva reso innominabile la dimensione sessuale dell’uomo. Ma sono le stesse culture che hanno creato un nuovo tabù, difeso con rigore ancor più ossessivo. The pornography of death, la pornografia della morte, è il titolo significativo scelto dall’inglese Geoffrey Gorer per il suo studio su queste nostre società nelle quali le sanzioni previste dai vecchi codici per i cosiddetti “atti osceni” si sono spostati su chiunque sfidi la nuova nevrosi».

La morte, insomma, è diventata oscena, innominabile. Mai come adesso risuona attuale il pensiero di Pascal: «Gli uomini, non potendo guarire la morte e sperando di essere più felici hanno deciso di non pensarci».

Il mondo autochiuso vive in un eterno presente, come nel Brave New World partorito dalla mente di Aldous Huxley. O per meglio dire, vive nel “tempo reale”: il tempo istantaneo della vita accelerata di oggi reso possibile da Internet che impone a tutti di essere sempre attivi e connessi.

È un’altra conseguenza di un mondo illimitato: la mobilità è diventata è diventata una costante della nostra esistenza. Un ricercatore americano ha calcolato che se nell’anno 1800 le persone ogni giorno si spostavano mediamente di 50 metri, ora si spostano di circa 50 chilometri. Questa accresciuta mobilità si è accompagnata a tecnologie del trasporto e della comunicazione sempre più potenti e perfezionate che ne accelerano progressivamente la velocità. L’eccezionale sviluppo degli strumenti di comunicazione, in parallelo a quelli di trasporto, si spiega facilmente: sono indispensabili per mantenere vivi i contatti sociali di un mondo sempre più mobile.

Lo spazio e il tempo risultano sconvolti da questa grande trasformazione e la stessa condizione umana è messa a dura prova: il fisico e la psiche vengono continuamente sollecitati e utilizzati, spesso anche oltre i limiti delle possibilità umane. E così, osserva il sociologo Vanni Codeluppi nel suo saggio Ipermondo, «gli esseri umani si trovano […] a dover vivere in una condizione paradossale nella quale non riescono più a comunicare e hanno la sensazione di essere in un istante onnipresente dove passato, presente e futuro tendono progressivamente a fondersi. E dove non è più possibile elaborare progetti a lungo termine ed è necessario convivere al meglio con ciò che ogni giorno si presenta».

Il mondo autochiuso diventa di necessità un ipermondo: un mondo aumentato, accelerato. Ma anche un mondo liquido, fatto di relazioni a breve scadenza. Un mondo che ha in odio i muri perché ha murato il cielo. È un destino anticipato con intuizione profetica da Gustave Thibon:

Il muro e il soffitto. Grazie alle innovazioni tecnologiche e alla gestione sempre più perfezionata della propria esistenza temporale, l’uomo sopprimerà forse le barriere che il destino oppone ai suoi appetiti di potenza e di felicità (la malattia, la miseria, l’angoscia, la guerra e, al limite, la morte). Ma non sopprimerà al tempo stesso le possibilità di evasione offerte da queste barriere che non salgono fino al cielo e lo invitano a superare se stesso verso l’alto?
Non stiamo andando incontro, temo, che a una specie di paradiso rasoterra in cui, non incontrando i nostri piedi più alcun ostacolo, le nostre ali non avranno più alcun impiego. Non più muri, ma un soffitto ermetico. Emancipatasi dalle divine possibilità della sventura e della morte, l’umanità striscerà nel suo luogo d’esilio trasformato in patria definitiva. Tutte le pietre dei muri che si opponevano alla nostra marcia si ritroveranno sulla nostra testa per paralizzare il nostro volo. (Gustave Thibon, L’ignorance étoilée, Fayard, Paris 1974, p. 125)

Fratello virus è piombato come un fulmine a ciel sereno, aprendo una crepa nel soffitto ermetico di questo nostro mondo sazio ma non disperato, sempre alla ricerca di limiti da oltrepassare, che addirittura progetta, avido di progresso, di sconfiggere la morte con la tecnica. E che ha cercato di soffocare la domanda religiosa presentando la ricerca di Dio come un problema insignificante.

Ma l’uomo può vivere di solo pane? La sua fame può saziarsi in un paradiso rasoterra? La nostra vita dipende, prima di tutto, dalla risposta a queste domande di senso. Molti in questi giorni spendono generosamente la loro vita al servizio dei fratelli, nelle corsie di un ospedale o in soccorso degli umiliati e gli offesi di questo tempo, spesso lasciati soli a fronteggiare un nemico invisibile. Cosa li spinge a farlo quando tutto esorta, al contrario, a salvaguardarsi, a evitare ogni minimo contatto? «Dio» – ci ricorda Fabrice Hadjadj – ha creato il mondo per amore; ma «per amore» vuole dire «senza perché», senza ragione esterna all’amore stesso. Alla radice di ogni cosa creata c’è una gratuità fondamentale. Per chi è fuori dall’amore, tale gratuità appare come un’assurdità. Per chi è dentro, appare come una grazia».

Riportarci ad amare Dio e il prossimo. E se fosse questa la lezione di fratello virus?

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here