Non si contano più i finanziamenti per progetti in Africa, eppure ancora oggi per le emergenze non si può far affidamento sui governi locali. E così sarà finché non si avrà il coraggio di dire che la prima causa dei problemi è la classe dirigente di questi paesi.                     

Alpha Condé, presidente della Guinea Conakry nonché presidente di turno dell’Unione Africana, il 29 maggio, ospite dell’Europarlamento, ha detto di fare affidamento sull’Unione Europea per la realizzazione di un Piano Marshall per l’Africa. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani lo ha rassicurato dicendo che nel prossimo piano finanziario europeo saranno previsti fondi per sostenere l’UA e i suoi stati membri: “il Parlamento europeo – ha promesso – chiederà più fondi per un vero e proprio Piano Marshall”. “Dobbiamo affrontare alla radice le cause dell’emigrazione” ha aggiunto l’ospite africano auspicando una partnership più stretta tra Africa e Unione Europea.

Non si contano più – lo sanno tutti, a maggior ragione devono saperlo Condé e Tajani – i “Piani Marshall” per l’Africa finanziati in oltre mezzo secolo, dalla fine della colonizzazione europea. Ogni anno decine di miliardi di dollari, gran parte dei quali messi a disposizione dall’UE e dai suoi stati membri, oltre che da Gran Bretagna e Stati Uniti, si riversano sul continente per realizzare progetti di sviluppo, far fronte alle emergenze umanitarie, saldare i debiti contratti dai governi, pagare le spese elettorali, assistere sfollati e rifugiati, tenere aperti e funzionanti ospedali e scuole, riempire le casse statali (il 40% del bilancio di Burundi e Malawi, ad esempio, deriva da finanziamenti europei e statunitensi), mantenere le missioni di peacekeeping (non solo quelle dell’Onu, persino i militari UA impegnati in Somalia nella missione Amisom contro i jihadisti al Shabaab sono pagati dall’UE), tenere incollati ai tavoli negoziali i portavoce dei gruppi armati e dei governi in guerra, combattere il terrorismo islamico…

Solo pochi giorni prima, il 23 maggio, la visita a Bruxelles del presidente della Commissione dell’UA, Moussa Faki Mahamat, si è conclusa con l’impegno europeo, annunciato dal presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, a finanziare in Africa nuovi progetti continentali e regionali e a rafforzare le capacità istituzionali della Commissione dell’UA. Verranno stanziati a tal fine altri 400 milioni di euro, per incominciare. Serviranno tra l’altro per investimenti nel settore agricolo, agroalimentare e nell’economia digitale e in attività di “coinvolgimento innovativo dei giovani”, per rafforzare i programmi di scambio tra università africane e per migliorare il riconoscimento delle qualifiche a livello continentale.

Inutile dire che l’UA, i suoi dipendenti, i suoi progetti, le sue iniziative dovrebbero essere finanziati dagli stati membri, così come succede per ogni altro organismo internazionale. Invece i contribuenti europei lavorano anche per consentire all’Unione Africana di esistere. Dovrebbe essere altresì superfluo obiettare – perché le autorità europee e africane lo sanno benissimo – che in Africa ci sono problemi ancora più drammatici, di più difficile soluzione che le poche centinaia di migliaia di emigranti ostinatamente decisi a raggiungere l’Europa intraprendendo viaggi clandestini.

Detto questo, però, se si vuole davvero “affrontare alla radice le cause dell’emigrazione”, quella clandestina, e degli altri ancora più grandi problemi che affliggono l’Africa, bisogna finalmente avere il coraggio di dire, al presidente Condé prima di tutto, che è lui la causa prima, lui la radice di quei problemi: lui e chi come lui ricopre cariche amministrative e politiche, capi di stato e di governo, ministri, parlamentari, alti gradi militari, funzionari pubblici…

Proprio in questi giorni nella Repubblica Democratica del Congo si lotta contro una epidemia di Ebola, la malattia che quattro anni fa ha ucciso più di 11.000 persone in tre paesi dell’Africa occidentale. Dalle campagne in cui sono stati individuati i primi casi, l’epidemia il 17 maggio ha raggiunto Mbandaka, una città di un milione di abitanti distante 130 chilometri, importante centro del commercio sul fiume Congo che attraversa il paese e collega alcune delle città più popolose, inclusa la capitale Kinshasa dove vivono dieci milioni di persone. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, con l’ausilio di Medici Senza Frontiere e di altre organizzazioni non governative, sta tentando di circoscrivere l’epidemia. Ha subito stanziato 1 milione di dollari attingendo a un fondo di emergenza e ha inviato decine di esperti.

Sul governo della RDC non si può fare affidamento. Il presidente Joseph Kabila pensa solo a come rimandare ancora le elezioni alle quali non può più partecipare essendo scaduto nel 2016 il suo secondo e ultimo mandato. Immensi territori sono privi quasi del tutto di infrastrutture, infestati da bande armate. Il servizio sanitario nazionale è carente a dir poco: ad esempio, dispone di un medico ogni 100.000 abitanti.

Che l’epidemia venga arginata o invece dilaghi dipende dall’intervento internazionale, dai fondi disponibili e dal modo in cui la popolazione reagirà e collaborerà. Per la prima volta esiste un vaccino, realizzato di recente dalla Merck, ma la sua somministrazione in Congo non è semplice. “Dobbiamo condurre un’operazione altamente sofisticata in una delle regioni più difficili del pianeta – ha spiegato Peter Salama, un alto funzionario dell’Oms – dobbiamo fare i conti con il caldo, l’umidità e centinaia di chilometri di aree coperte da fitte foreste, da percorrere quasi interamente su piste perché mancano le strade”. Scarseggiano anche ambulatori, presidi e personale sanitario. Inoltre a Mbandaka la luce elettrica funziona tre o quattro ore al giorno e bisogna ricorre ai generatori. Già questo è un problema perché i vaccini devono essere conservati a temperature molto basse, sotto lo zero. Per ovviare alla mancanza di strade Oms e ong hanno organizzato dei ponti aerei per trasportare personale e medicinali. Ma nelle campagne persino gli elicotteri sono inutilizzabili. “Abbiamo dovuto mandare gente a tagliare l’erba perché possano atterrare” ha spiegato il 25 maggio in conferenza stampa Michel Yao, responsabile Oms in Africa.

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