Sotto i nostri occhi trionfa l’Occidentalismo, ovvero l’idea che tutto si riduca alla libertà di fare qualsiasi cosa permessa dalla tecnica (come dimostra il quarantesimo della legge 194). Ma l’Occidente nato da Atene Roma e Gerusalemme non era questo…
Continua il dibattito su.. “La fine dell’Occidente?” [A cura dei siti Pepe , The Debater e La Baionetta]
È dai tempi di Spengler che assistiamo all’infinita polemica tra le Cassandre che annunciano la fine dell’Occidente e i Pangloss che lo dipingono come il migliore dei mondi possibili. Certo, sul piano dei fatti non sembra esserci partita. Come dare torto a chi obietta ai profeti di sventura che l’Occidente gode di ottima salute?
Ma di che salute parliamo? E soprattutto di che Occidente parliamo? Per orientarsi occorrono alcune distinzioni. Bisogna innanzitutto distinguere tra cultura, civiltà e tecnica. Se la cultura di un’epoca è il suo patrimonio morale e spirituale, la civiltà è il progresso materiale, gli avanzamenti nei valori solo materiali. La tecnica è invece quell’insieme di regole per organizzare in maniera più efficiente il progredire della potenza “produttiva” della civiltà.
Se parliamo di civiltà e di tecnica, nessuno può essere così sciocco da negare le tante conquiste materiali del mondo occidentale. Ne enumeriamo solo alcune: la longevità, passata dalla media di 30 anni in età preindustriale agli oltre 70 di oggi; l’inaudita crescita del prodotto pro capite e del tenore di vita complessivo (agli inizi del XXI secolo la produzione totale degli Stati Uniti risultava di quasi quaranta volte superiore al 1890); il notevole miglioramento dell’alimentazione e delle condizioni igienico-sanitarie.
Ma una volta riconosciuto questo fatto, resta pur sempre una domanda inaggirabile: possiamo ridurre tutto al perfezionamento tecnico e alla potenza politico-militare-economica? La grandezza sta solo nell’opulenza e nella crescente disponibilità di mezzi? Dobbiamo limitare il nostro orizzonte agli avanzamenti nei valori soltanto materiali?
La risposta non può che essere negativa. A ben vedere una visione così mutilata è uno dei sintomi della crisi dell’Occidente, che sembra non volersi curare delle proprie radici. Vale a dire che ha dimenticato la propria cultura (che deriva dal latino coelere, “riverire, venerare”, ma anche “coltivare”). Michele Federico Sciacca (1908-1975), uno dei massimi filosofi cattolici, ha a lungo meditato sulla cultura occidentale che egli vedeva data dall’unità spirituale di due tradizioni: la tradizione critico-scientifica e quella metafisica e religiosa ebraico-cristiana. Ciò che chiamiamo «Occidente» nasce dalla sintesi della filosofia greca, della scienza del diritto romana, della verità ebraico-cristiana.
OCCIDENTE E OCCIDENTALISMO
L’Occidente sorge dalla simbiosi tra Atene, Roma, Gerusalemme. La sua essenza consiste nell’unità della tradizione umanistico-razionalistica e della tradizione religiosa. La rottura di questa unità ha innalzato una tradizione contro l’altra, sicché la «crisi» dell’Occidente coincide con la decadenza di un antropocentrismo immanentistico – Sciacca lo chiama Occidentalismo – che ha staccato la tradizione critico-scientifica dall’altra.
Non è l’Occidente a essere in crisi, ma l’Occidentalismo. Il tramonto dell’Occidente, identificato da Spengler con la civiltà «faustiana», denuncia la crisi della civiltà occidentale nata dalla rottura della sua unità culturale. Per l’Occidentalismo, come per Francis Bacon, il britannico che ne fu tra gli iniziatori, il sapere è potere. La scienza è assoggettata alla finalità pratica del dominio sulla natura. L’Occidentalismo diventa essenza e ideologia di un mondo autoreferenziale, che conta soltanto sull’indefinito avanzamento della propria potenza politica, militare e economica. È un mondo, osserva Sciacca, che idolatra la ragione ma disprezza l’intelligenza. Il segno dell’intelligenza sta nella ragione che dubita di se stessa.
L’intelligenza consiste nel riconoscere il proprio limite. Un limite da non intendere solo negativamente, come un ostacolo davanti al quale arrestarsi, ma innanzitutto positivamente come costitutivo ontologico di ogni essere. Solo chi si riconosce come un essere finito, cioè limitato, può vivere in un cosmo, parola che nella lingua greca arcaica designava un ordine, la bellezza risultante da una disposizione armoniosa.
IL SENSO DELL’OLTRE E QUELLO DEL LIMITE
In una parola, il senso del limite circoscrive quanto i Greci hanno definito, fin dalla più remota antichità, come physis, natura. Questa nozione di limite si manifesta nella famosa stele 695 del museo dell’Acropoli, che raffigura la dea Atena come colei che al tempo stesso fissa il limite e vi si appoggia.
Per questo motivo la vera grandezza dell’Occidente è sempre stata la capacità di autolimitare la propria volontà di potenza. Il gusto tipicamente occidentale per la libertà sarebbe stato inconcepibile senza la plurisecolare lotta per limitare il potere come mero factum brutum. Pensiamo solo che il regime parlamentare nasce come contrappeso del popolo all’autorità regia. È il principio dello stato di diritto, nel quale è l’autorità a essere sottomessa alla legge, non il contrario. Le legge nasce per dare un limite alla tentazione autoritaria per eccellenza: l’abuso di potere, l’arbitrarietà dei forti (l’«anarchia del potere», avrebbe detto Pasolini).
La cultura occidentale rappresenta precisamente il tentativo di arginare l’indole superba del potere. Tutto il sistema di garanzie legali, a partire dall’habeas corpus, serve a garantire contro i soprusi dei più forti. Prima che la legge “avesse un corpo”, cioè l’ordine scritto di un giudice terzo, imparziale, le giurisdizioni locali potevano imprigionare e torturare senza accuse concrete. Se c’era un peccato temuto dagli Antichi era proprio la dismisura, la trasgressione di un limite invalicabile.
Come ha scritto Benedetto XVI, «il mondo greco, la cui gioia di vivere si rivela in modo meraviglioso nell’epopea omerica, era tuttavia profondamente consapevole del fatto che il vero peccato dell’uomo, la sua minaccia più intima è la hybris: l’autosufficienza presuntuosa, in cui l’uomo eleva se stesso a divinità, vuole essere lui stesso il suo dio, per essere completamente padrone della propria vita e sfruttare fino in fondo tutto ciò che essa ha da offrire. Questa consapevolezza che la vera minaccia per l’uomo consiste nell’autosufficienza ostentata, a prima vista così convincente, viene sviluppato nel Discorso della montagna in tutta la sua profondità a partire dalla figura di Cristo».
La ragione col limite è contrassegnata dall’intelligenza – la capacità di intus legere, di andare a cogliere l’essenza profonda della realtà – e dalla sua traduzione pratica, la saggezza. La ragione senza limite è contrassegnata invece dalla stupidità propria di chi avanza unicamente per via aggregativo-sommativa senza però spingersi oltre la superficie delle cose. Romano Guardini parlerà a questo proposito della «autochiusura del mondo» tipica dell’Occidentalismo, che non ammette alcun «oltre» rispetto a se stesso. È un orizzonte chiuso in se stesso, dal quale non si «esce né per la via verso l’interno, né all’insù, verso l’alto, chiuso su di sé e dentro di sé». La stupidità, dice Sciacca, consiste precisamente nel negare quello che non si vede e non si comprende, ossia nel non riconoscere i limiti della condizione umana.
In questi giorni ricorre il quarantesimo della legge 194 che ha legalizzato l’aborto in Italia. Lo ha ricordato la Marcia per la vita che ha sfilato sabato a Roma. Il disprezzo della natalità è forse l’aspetto dell’esistente in cui la hybris occidentalista si manifesta più apertamente nella sua stupida aspirazione a evadere dalla condizione umana. Il mondo occidentalista – dove se è vero che si vive sempre di più, è altrettanto vero che si nasce sempre di meno – non solo decide prima della nascita chi deve vivere e chi deve morire. Pretende anche, grazie ai progressi dell’ingegneria biologica, di determinare come e quanto deve vivere. Avendo smesso di vedersi come “figlio della natura”, l’uomo occidentalista crede di potersi autofabbricare e di poter sconfiggere addirittura la morte (come vagheggiano i transumanisti).
Hannah Arendt, un esempio di quella profonda intelligenza del reale negata all’Occidentalismo, aveva intuito questa volontà di emanciparsi dai limiti naturali per mezzo della tecnologia. «Molti sforzi scientifici», la vediamo scrivere in Vita activa (del 1958), «sono stati diretti in tempi recenti a cercare di rendere “artificiale” anche la vita, a recidere l’ultimo legame per cui l’uomo rientra ancora tra i fili della natura. È lo stesso tentativo di evadere dalla prigione di terra che si rivela nel tentativo di creare la vita in una provetta, nel tentativo di mescolare “sotto il microscopio il plasma germinale congelato di persone di comprovato valore per produrre “esseri umani superiori” e “modificarne la grandezza, forma e funzione”; io credo anche che un desiderio di sfuggire alla condizione umana si nasconda nella speranza di protrarre la durata della vita umana al di là dei limiti dei cento anni».
Non sappiamo se l’Occidente sia prossimo alla sua fine. Sappiamo solo che ha smarrito la propria anima, ancorché il suo corpo goda di ottima salute. E che non la riconquisterà fino a quando non riconoscerà che la libertà senza ordine alimenta, presto o tardi, la peggiore delle tirannie.